Giochiamo ? – Giochiamo !

Giochiamo articoli di VocidiBimbi.it

Giochiamo ? – Giochiamo !

Come è possibile giocare con un bambino di due settimane che non parla, non salta e non sa ancora ne afferrare ne lanciare ? Ma soprattutto è importante il gioco nelle prime settimane di vita ?

Per riuscire a trovare delle risposte a queste domande dobbiamo prima decidere cosa intendiamo per gioco, o meglio, cosa è il gioco per un bambino. Se non riusciamo a tornare con la mente ai nostri primi anni di vita, possiamo però osservare con attenzione un gruppo di bambini piccoli giocare e scopriremo che per loro il gioco non è un passatempo né una maniera di distrarsi o riposarsi; per loro il gioco è una forma di lavoro, è l’attività primaria della loro vita attuale, è l’unica maniera che conoscono per esprimersi e per comunicare.

I cuccioli di mammiferi giocano tra di loro per imparare a difendersi e a cacciare, intanto si divertono e sviluppano la muscolatura; i nostri cuccioli, attraverso il gioco, sviluppano la loro complessa struttura mentale e imparano a utilizzare le diverse potenzialità dell’organismo.

Nel primo anno di vita il gioco permette di sviluppare in maniera armonica il sistema psicomotorio:  collegare gli occhi con le mani, conoscere le forme, il pieno e il vuoto, il dentro e il fuori, il sopra e il sotto, il prima e il dopo, e ancora molte altre cose. Il gioco già nelle prime settimane di vita permette al cervello di organizzare collegamenti cellulari e creare elaborati programmi mentali; probabilmente senza il gioco saremmo meno intelligenti della più stupida tra le scimmie.

E’ il gioco quindi il vero alimento della mente, il cibo è soltanto il carburante per produrre l’energia per giocare (nei bambini serve anche per aumentare il volume dell’organismo). In questo senso il gioco è molto più importante del cibo e probabilmente senza il gioco nessun bambino sarebbe disposto a cibarsi e quindi a vivere. Se il nostro sviluppo mentale (e con lui l’identità e la personalità) si organizza e si struttura nel primo anno di vita, significa che per giocare non bisogna aspettare di saper tirare calci ad una palla.

Veniamo quindi alla prima domanda “come giocare con lui fin dai primi giorni di vita ?”. E’ facilissimo, basta provare ad essere un po’ come lui, e siccome lui confonde se stesso con la mamma, dobbiamo provare a confonderci un po’ con lui.

Dobbiamo riuscire ad accettare di essere noi il suo gioco. Il seno della mamma, i suoi occhi, il suo odore, le sue dita, il suo calore, sono il gioco dei primi giorni; stare in braccio o essere massaggiati è il primo gioco che lo porta a conoscere la mamma e attraverso di lei iniziare a conoscere se stesso. Dal secondo mese il gioco sarà osservare ed esplorare, ma mai da solo, sempre in braccio, perché ancora non può sapere che il braccio è della mamma. Verso i quattro mesi il gioco diventa interessante, perché quanto si è scoperto con gli occhi diventa accessibile alle mani (e alla bocca); anche il viso della mamma o del papà è un bel gioco in movimento che fa smorfie e rumori e che si può anche toccare.

Se questo per lui è un gioco, anche per noi deve essere puro divertimento che riesce a farci dimenticare non soltanto il lavoro e gli impegni, ma anche chi siamo; in quel momento dobbiamo essere come lui e vivere il qui-adesso-tra-di-noi. E’ giocando con lui che riusciamo a vivere le sue emozioni, a conoscerlo e a farci conoscere; giocando riusciamo ad avere fiducia in noi come genitori e in lui come figlio, mentre lui impara ad avere fiducia in se stesso e quindi in noi. Capiremo di amarci con grande facilità e creatività.

Dal sesto mese viene il bello, perché lui ormai sta abbastanza dritto, afferra e lancia e risponde ai nostri versi con urletti da matto. E’ molto divertente usare giocattoli improvvisati, come i cucchiai di plastica, gli anelli delle tende, i rocchetti di legno, i fiocchi dei pacchi, le scatolette riempite di palline e tutto quello che riesce a fare un po’ di baccano.

Per tutto il secondo semestre di vita i posti migliori per giocare sono i prati o, se piove, un tappetone di gommapiuma (ricoperto di stoffa o similpelle) in un angolo della sua camera. Sul tappetone si può giocare anche senza giochi semplicemente usando il nostro corpo per rotolarsi insieme, fare capriole, tunnel, ecc.; ma anche con i giocattoli il tappetone diventa il posto più bello della casa dove, dopo il lavoro, bisognerebbe che anche noi ci precipitassimo…

Ma se il tempo è bello non dobbiamo dimenticare che siamo anche noi dei mammiferi e che non siamo stati programmati per vivere chiusi in gabbia; tutti i giochi che si riescono a fare fuori diventano belli il doppio e all’aperto si riesce a giocare più rilassati e senza mai stancarsi.

Dopo i primi mesi è utile che la mamma e il papà non facciano i turni per giocare, ma che ogni tanto giochino entrambi con lui, così lui imparerà a conoscerli meglio e loro impareranno a conoscersi reciprocamente nel nuovo ruolo di genitori giocosi.

Se lasciamo che per una volta sia nostro figlio a insegnarci qualcosa, potremo (ri)scoprire che non si viene al mondo per lavorare, ma per giocare, e che tutta la vita è un grande gioco.


Pericolo

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Informazioni sulla prevenzione degli incidenti domestici in età pediatrica

Ogni bambino nei primi anni di vita è particolarmente curioso e sufficientemente incosciente per procurarsi situazioni di pericolo; a volte certe situazioni sono provocate o amplificate dal desiderio di richiamare l’attenzione degli adulti.

Schematizzando si potrebbe dire che nel primo anno di vita del bambino il genitore deve cercare di prevenire completamente la situazione di pericolo, mentre nei 2-3 anni successivi è più utile cercare di limitare il pericolo lasciando al bambino la possibilità di fare esperienza.

Quando il bambino è più consapevole è necessario educarlo al pericolo senza utilizzare i divieti (che spesso il bambino non capisce) e senza cercare di annullare completamente i rischi (cosa del resto impossibile).

In rapporto all’età il bambino deve essere aiutato a capire e a conoscere sempre più la realtà che lo circonda; questo processo educativo avviene, per tutta la prima e la seconda infanzia, attraverso la sperimentazione diretta (il fare e il toccare).

E’ evidente che per i genitori è molto difficile creare intorno al bambino un ambiente protetto all’interno del quale abbia però la possibilità di fare esperienze e conoscenze.

Un altro limite in questo processo educativo riguarda la crescente capacità di performance del bambino in crescita; quello che il bambino non sapeva fare ieri lo può fare oggi con perizia.

E’ probabilmente inutile ricordare che il momento di maggior pericolo nei primi anni di vita si verifica quando il bambino impara a camminare;  in questa fase di sviluppo le sue possibilità operative (e la velocità di esecuzione) sono molto superiori alle sue capacità mentali di avvertire il pericolo (e a questa età la paura è  praticamente inesistente).

Quando il bambino ha l’età per guardare la televisione spesso riceve dai cartoni animati delle false informazioni e rischia di convincersi che tutto è possibile e nulla è pericoloso; non possiede infatti la capacità critica di capire ciò che è finzione e pertanto corre il rischio di emulare ciò che ha visto fare sul video dal suo eroe preferito.

Le principali situazioni di pericolo si verificano durante i traslochi, le feste, le vacanze, quando cioè gli adulti sono impegnati e distratti e l’ambiente in cui il bambino si trova risulta modificato.

Un’altra situazione a rischio si realizza quando ci si reca in visita da parenti o amici che non hanno figli piccoli oppure nelle situazioni in cui giocano insieme bambini di età differente (spesso anche i giochi dei fratelli più grandi possono diventare pericolosi).

Tra i principali incidenti domestici occorre molta attenzione al rischio di ingestione di farmaci, detersivi e veleni; questi prodotti devono essere tenuti possibilmente sotto chiave e comunque almeno collocati in alto (cioè non raggiungibili dal bambino neppure salendo sopra una sedia).

I giocattoli devono avere dimensioni tali da non essere ingeribili o inalabili; attenzione deve essere posta anche per i semi degli alimenti.

Per quanto riguarda il rischio di soffocamento occorre attenzione per i sacchetti di plastica, i palloncini di gomma sgonfi o rotti, le corde e le cinture.

Le cadute veramente pericolose sono quelle dalle scale (occorrono i cancelletti) e dalle finestre (per un bambino con fantasia non è difficile scoprire che salendo su una sedia appoggiata al davanzale è possibile  vedere il panorama …). Sotto divani e fasciatoi è utile porre tappetini che in caso di caduta attutiscono il trauma. Per evitare di scivolare sui tappeti è sufficiente inserirvi sotto apposite gomme antiscivolo.

Le ferite importanti sono generalmente provocate (oltre che dalle armi da fuoco) dai coltelli e dai vetri rotti di finestre, porte, ecc. (i vetri possono  essere rivestiti da fogli di plastica adesiva trasparente che ne impediscono la frantumazione).

L’annegamento, oltre che in piscine non protette, può avvenire anche nella vasca o in ampie tinozze; nessun bambino piccolo dovrebbe  giocare nell’acqua senza un adulto vicino.

Le ustioni sono quasi sempre causate da liquidi caldi; è  sufficiente  abituarsi a non avere il bambino quando si cucina e porre sempre le  pentole nei fuochi più interni del piano di cottura.

Per i rischi elettrici sono inutili i copripresa ; è più utile usare prese di sicurezza (quelle con la membrana all’interno) ed installare efficienti salvavita.

L’elenco sopra riportato potrebbe provocare in qualcuno angoscia e panico; in realtà è stato fatto con la convinzione che solo la conoscenza dei problemi permette di intervenire (nel nostro caso di prevenire) evitando di subire gli eventi o di imparare tutto sulla propria pelle.

E’ utile ricordare che un incidente importante è sempre l’effetto di più cause e pertanto generalmente è sufficiente intervenire in almeno uno dei fattori che concorrono all’evento per evitare che questo si realizzi (non è realistico fidarsi della fortuna o della perizia dell’angelo custode).

Mi preme anche segnalare che per esperienza professionale e personale i nostri bambini nel primo anno sembrano fatti di gomma e i danni che riescono a procurarsi sono sempre inferiori sia ai rischi che sono stati capaci di inventarsi sia al piacere derivato dall’averci provato.


Vaccinazione

Vaccinazione articoli di VocidiBimbi.it

C’era una volta la Polio …

Amava girarsene per il mondo senza preferenze particolari di luoghi; era molto attratta dalla specie umana. Una volta entrata nell’organismo attraverso l’intestino, andava a nascondersi nei nervi del midollo spinale; non arrivava quasi mai ad uccidere chi la ospitava, ma l’intrusione nel sistema nervoso provocava velocemente l’alterazione della funzionalità soprattutto degli arti inferiori che rimanevano lesionati per il resto della vita.

In particolare i bambini si svegliavano il mattino con le gambe già paralizzate e pochissime possibilità di guarigione. All’inizio degli anni ’50 i bambini colpiti erano così numerosi (anche 8.000 all’anno solo nel nostro Paese)  che a Bologna l’ospedale Gozzadini (oggi S.Orsola) aveva istituito un reparto completamente dedicato alla loro riabilitazione.

Le cure non avevano lo scopo di raggiungere la guarigione, si prefiggevano soltanto l’obiettivo di limitare i danni permettendo al bambino il minor danno funzionale possibile. Nel 1954 in un solo anno il Gozzadini ricoverò mille nuovi casi di polio, che si sommarono ai casi degli anni precedenti.

In quegli anni un famoso infettivologo che si chiamava Salk riuscì a mettere a punto un vaccino antipolio utilizzando virus uccisi, veniva somministrato tramite iniezione e proteggeva finalmente i nuovi nati dal rischio di infezione.

Il virus però continuava tranquillamente a girare tra le persone; entrava  dalla bocca e usciva con le feci e molte persone fungevano da serbatoi del virus : erano i cosiddetti portatori sani. Chi non era vaccinato continuava ad ammalarsi come prima; infatti in molte regioni dell’Italia meridionale molti bambini non vaccinati continuavano ad ammalarsi.

All’inizio degli anni ’60 un altro infettivologo ancora più famoso (fu insignito del premio Nobel) che si chiamava Sabin, capì che per sconfiggere il virus occorreva impedirgli di sopravvivere nell’intestino dell’uomo. Mise a punto un vaccino fatto con virus vivi ma privo del potere di danneggiare il sistema nervoso; nelle persone vaccinate il virus non poteva più vivere all’interno dell’intestino.

Senza più il serbatoio umano il virus della polio non è più stato in grado di sopravvivere nell’ambiente e dal 1981 in Italia nessun bambino si è più ammalato di polio.

Rispetto al vaccino precedente di Salk però il vaccino vivo di Sabin presentava dei rischi maggiori; 1 caso ogni 700000 vaccinati (circa 1 caso all’anno in Italia) poteva sviluppare sintomi simili a quelli prodotti dalla malattia.

Dopo solo 40anni di utilizzo del vaccino di Sabin il virus della polio è sparito in quasi tutto il mondo (rimane ancora in piccole zone dell’Africa e dell’Asia) e pertanto le autorità sanitarie hanno potuto decidere nel 1999 di tornare al vecchio vaccino di Salk privo di effetti collaterali.

E’ la prima volta che in medicina si torna indietro, in pratica l’attuale generazione di adulti si è un po’ sacrificata e ha permesso ai bambini nati negli ultimi anni di essere vaccinati con un vaccino vecchio ma più sicuro. Fra qualche anno quando la polio sarà sparita da tutto il mondo nessuno avrà più bisogno di essere vaccinato e si realizzerà la massima secondo la quale l’obiettivo della medicina è eliminare la propria necessità.

E’ successa la stessa cosa con il vaiolo che uccideva milioni di persone ogni anno, fino al 1978 è stato vaccinato praticamente tutta l’umanità e oggi che il vaiolo è sparito dal pianeta nessuno dei nostri figli ha più bisogno di essere vaccinato contro il vaiolo, ma questa è un’altra favola……


Sviluppo del bambino

Sviluppo psicomotorio del bambino articoli di VocidiBimbi.itSviluppo psicomotorio del bambino nel primo anno di vita

 

 

 

 


Attrezzature

Attrezzature articoli di VocidiBimbi.itIl bebè e le sue attrezzature

Marsupio
E’ un ottimo strumento per muoversi comodamente; abbiamo entrambe le mani libere, ma possiamo ugualmente abbracciare il nostro bambino. Lui si trova a contatto col nostro corpo in un rassicurante dondolio di uterina memoria. Possiamo usarlo dopo il primo mese di vita; per un impiego già  dai primi giorni dovremmo acquistare marsupi particolari che mantengono il bambino quasi orizzontale, oppure farci insegnare da qualche amica africana o indiana l’uso della fascia che può essere utilizzata anche quando il bambino è più grande. Il marsupio invece difficilmente ci potrà servire dopo il 4 mese quando il bambino comincia a diventare troppo pesante. I timori per la colonna vertebrale del bambino sono infondati, per quella della mamma, un po’ meno.

Seggiolina
Ne esistono di diversi modelli; dagli infant-seat, agli ovetti, alle sdraiette. Possiamo utilizzarli fin dalle prime settimane di vita, purchè il bambino sia posizionato con la schiena ben appoggiata e inclinata all’indietro; eventualmente potremo utilizzare spessori laterali che stabilizzano il tronco. Molti bambini si stufano presto di stare sulla seggiolina, preferiscono stare in braccio; evitiamo quindi di abusare di uno strumento che, pur comodo, impedisce quel contatto fisico che giustamente ogni bambino desidera. Dopo il 7° mese sarà meglio usare il seggiolone.

Passeggino
Potremo utilizzarlo dopo il marsupio già dal 3° mese. Al bambino piace più della carrozzina, perché gli permette di vedere il mondo che gli viene incontro e quindi di fare importanti e interessanti esperienze. All’inizio potrebbe servire stabilizzare il corpo con riduttori o semplici supporti laterali. Gli attuali modelli possono essere inclinati completamente per favorire i sonnellini e in caso di brutto tempo hanno la possibilità di essere chiusi quasi completamente. Quando il bambino è in grado di camminare con sicurezza dovremo ricordarci di usarlo il meno possibile; è molto più bello tenersi per mano.

Seggiolone
Serve per dare le pappe in presenza di un adulto; senza l’adulto serve per cadere. E’ utilizzato anche per tenere il bambino a tavola con gli adulti, ma per questo oggi esistono anche comodi seggiolini da appendere direttamente al tavolo. Va usato dal 6°-7° mese quando il bambino è in grado di stare comodamente seduto. Non serve per giocare, per questo il bambino ha bisogno di uno spazio maggiore dove può muoversi più liberamente.

Box
Per qualche genitore è uno strumento rassicurante, perché mantiene il bambino più protetto dai pericoli. Se però proviamo ad entrarci per qualche minuto ci rendiamo conto facilmente che non è un luogo tanto piacevole. E’ documentato che il bambino nel box è poco stimolato, viene privato di uno spazio aperto e dei necessari spostamenti orizzontali; il box riduce i momenti di relazione con l’ambiente e soprattutto con gli adulti. Faremo meglio a modificare la casa a misura di bambino, facendola diventare un mega-box.

Tappetone
E’ la cosa più utile dal 4°mese in avanti; potremo farcelo da soli o acquistarlo già fatto. E’ meglio usare gommapiuma un po’ dura di circa 4-5 cm di spessore, con dimensioni laterali di 1.5-2 metri e rivestimento di materiale facilmente lavabile (anche fintapelle). Sopra ci metteremo i suoi giochi preferiti, senza dimenticare che uno dei suoi giochi preferiti siamo noi. Presto diventerà il centro della casa: dove c’è il tappetone, c’è casa. E’ sconsigliato il cosiddetto “tappeto gioco”, che risulta troppo piccolo e dotato di giochi incorporati che impediscono una vera manipolazione creativa

Girello
E’ fortemente sconsigliato, ma se lo producono significa che qualcuno lo compra. Ostacola l’apprendimento del camminare, perché il bambino non vede i propri piedi, non impara a cadere e non sperimenta le reazioni di equilibrio. Per lo stesso motivo non è utile usare quelle orribili bretelle tanto care alla passata generazione.

 “Palestra”
Di solito l’abbiamo perché ce la regalano. E’ poco utile perché quando il bambino è piccolo e può solo guardare, si stufa degli oggetti che vi trova appesi; quando diventa capace di manipolare preferisce tenere gli oggetti in mano (o in bocca) non vincolati, ma liberi anche di essere lanciati. Lo stesso si potrebbe dire per le “giostrine” appese sopra il letto, la cui unica utilità per il bambino è di far comparire il viso della mamma o del papà circa ogni 2 minuti, quando occorre ricaricare il carillon.

Zainetto
Possiamo usarlo dal 7-8° mese, quando il bambino riesce a stare seduto comodamente. Permette di muoversi su qualunque terreno e quindi di portare il bambino in luoghi molto più stimolanti e sani di quanto sia possibile fare con il passeggino. Per i papà che vogliono salire molto in alto è consigliabile acquistare modelli con schienale e spallacci analoghi a quelli degli zaini alpinistici.


Autosvezzamento

Autosvezzamento articoli di VocidiBimbi.it

Autosvezzamento

Passare dalla “poppa alla pappa” viene vissuto da molti bambini come un momento difficile e spesso la crisi investe tutta la famiglia. Gli schemi di svezzamento sono numerosissimi e probabilmente, almeno parzialmente, sono tutti validi. Ma ciò che riguarda il cibo ha sempre una valenza culturale e sociale, e lo svezzamento non è escluso da questa regola. Proprio per questo non dovremmo considerare valida soltanto una “ricetta” per proporre ai nostri bambini un cibo diverso dal latte.

Da diversi anni abbiamo appreso che allattare all’orario richiesto dal bambino dandogli la quantità di latte che desidera, rappresenta la modalità migliore di alimentazione nei primi mesi di vita. Per lo stesso identico motivo perché non dovremmo continuare a fidarci del bambino e della sua capacità di regolarsi secondo il proprio appetito e quindi di autogestirsi la propria alimentazione ? Se nel primo semestre di vita cerchiamo di adattarci ai suoi bisogni, perché non continuare anche nei mesi successivi ?

Le attuali conoscenze pediatriche ci autorizzano a incamminarci su questo “nuovo” sentiero a patto di attendere il compimento del 6° mese per iniziare l’introduzione di alimenti solidi o semisolidi. Questo schema è in linea con le indicazioni fornite dalla Organizzazione Mondiale della Sanità che propone di alimentare il bambino soltanto con latte nei primi sei mesi di vita posticipando lo svezzamento dopo questo periodo.

Passato il 6° mese il bambino è abbastanza maturo per interagire in modo articolato con l’ambiente e con le persone, riuscendo più facilmente a far conoscere i propri desideri e preferenze anche rispetto al cibo. Partecipando al pasto dei genitori mostrerà curiosità e interesse, desiderando imitare il “gioco” che vede fare dai grandi. Seduto sul seggiolone o sulle nostre ginocchia sarà lui a decidere di passare dalla suzione alla masticazione indicandoci con decisione le sue preferenze. (Ricordiamoci che il bambino è già allenato al gusto, perché nel periodo fetale attraverso il liquido amniotico e poi attraverso il latte materno, egli ha già sperimentato il sapore dei cibi assunti dalla mamma).

Questa modalità che può essere definita di autosvezzamento riesce a trasformare il momento delle prime pappe in un gioco graduale e personalizzato, evitando di farlo diventare occasione di crisi o di conflitto tra i genitori e il figlio. Il bambino che non mostra interesse per il cibo ha probabilmente bisogno di altro tempo per prepararsi a fare questa esperienza o semplicemente deve poter condividere questa nuova attività con le persone che lui ama e con le quali si sente sicuro.

Se ci pensiamo un attimo, fino al momento dello svezzamento il bambino vive la propria alimentazione in stretto rapporto fisico con la mamma (e se mangia al seno si nutre addirittura di lei); non c’è un motivo serio perché anche nel rapporto col cibo solido, almeno nelle fasi iniziali, questa relazione rassicurante e felice non possa continuare.

Che cosa può mangiare un bambino a 6-7 mesi ? A questa età la principale differenza tra lui e i suoi genitori riguarda la funzione della masticazione; dovendo masticare senza denti avrà bisogno di cibo triturato e frammentato. Ricordiamoci inoltre che è sempre meglio non aggiungere sale o zucchero al cibo e che alcuni alimenti (latte vaccino, uovo intero e pesce) sarebbe opportuno indrodurli verso i 10-12 mesi. I cibi speciali per l’infanzia rimangono validi per quei bambini che vengono svezzati molto precocemente (verso i 3-4 mesi), e quindi ancora immaturi, o per quelli che mostrano importanti predisposizione per allergie e intolleranze.

Affinché il bambino possa partecipare al pasto e al cibo dei suoi genitori è però indispensabile che questi abbiano abitudini alimentari sane e corrette o che colgano l’occasione per migliorare la loro alimentazione, considerando che prima o poi il loro bambino arriverà comunque ad adeguarsi al loro stile alimentare mantenendolo probabilmente per tutta la vita.

Ma quanto deve mangiare un bambino nel secondo semestre di vita ? Come quando succhiava al seno, potremo continuare a lasciargli mangiare la quantità di cui lui ci mostrerà di avere bisogno, in relazione al suo appetito e ai suoi “scatti di crescita”. Se accettiamo di fidarci di lui, non avremo bisogno di forzarlo a mangiare, perché sarà lui a chiederci e noi a concedere.

Questa proposta di svezzamento recentemente è stata formulata con criteri scientifici e pubblicata su riviste di pediatria dal collega Lucio Piermarini che forse qualcuno di voi conosce per aver letto alcuni dei suoi acuti articoli pubblicati sulla rivista per genitori Un Pediatra Per Amico (UPPA).


Premi o punizioni ?

Premi o punizioni articoli di VocidiBimbi.it

Premi o punizioni ?

Una possibile risposta potrebbe essere: ‘né premi, né punizioni’. Soprattutto se l’obiettivo è fare acquistare a nostro figlio la conoscenza dei propri limiti e il controllo del proprio comportamento. Utilizzare la paura della punizione o la gratificazione di un premio, nella migliore delle ipotesi, produce un bambino ubbidiente, semplicemente disposto a fare ciò che noi vogliamo.

Spesso noi genitori utilizziamo la punizione (o la minaccia della punizione) con l’intenzione di insegnare ciò che non si deve fare, servendoci dei premi per rinforzare i giusti comportamenti. A volte però dovremmo cercare di resistere al piacere di vedere nostro figlio ubbidire prontamente ai nostri ordini; nonostante la nostra buona fede, quando indirizziamo i suoi comportamenti non sempre lo stiamo aiutando a crescere.

Il problema non è tanto decidere se essere permissivi o severi (a volte sono inopportuni entrambi gli atteggiamenti), quanto riflettere su come favorire in nostro figlio il suo personale cammino di crescita e di maturazione. Per il desiderio di ‘educarlo’ al giusto comportamento, rischiamo di ostacolare quel lento e complesso processo che lo porterà al controllo dei sentimenti e dei comportamenti, fino a quella fondamentale competenza che chiamiamo autonomia.

Nostro figlio sarà pronto per vivere senza il nostro sostegno soltanto dopo aver sperimentato i propri limiti e imparato a dominare i propri impulsi (sia negativi che positivi). Ma come raggiungere questo traguardo? Come aiutarlo a capire ciò che è giusto e ciò che è sbagliato? Come impedirgli di fare errori troppo gravi e irreparabili?

Le risposte a queste domande non sono né semplici né univoche. Molto dipenderà anche da come noi stessi siamo stati trattati da piccoli. Soprattutto coloro che sono stati educati in maniera severa per reazione potranno manifestare atteggiamenti permissivi oppure ripetere gli atteggiamenti coercitivi subiti per non avere avuto la possibilità di sperimentare forme educative diverse. E’ noto come le punizioni fisiche subite nell’infanzia possano produrre un adulto a sua volta violento; inoltre una punizione fisica non produce nessun vero apprendimento (se escludiamo il semplice timore di una nuova punizione).

Punizioni eccessive possono invece creare gravi sentimenti di frustrazione e di impotenza, col rischio di minare l’autostima e la fiducia in se stessi, favorendo comportamenti insicuri e rendendo più difficili relazioni positive. E’ anche possibile che la punizione provochi nel bambino sentimenti particolarmente negativi, come l’odio e la vendetta.

Abbastanza dannosa può anche essere la prassi di richiamare il bambino facendo paragoni con i suoi amici o i suoi fratelli; il senso di impotenza e fallimento nel vedersi misurato ad altri, può portare il bambino a convincersi di non essere bravo, scoraggiando in lui ogni tentativo di controllo dei propri sentimenti.

Anche il premio o la punizione utilizzando il cibo andrebbero evitati. In questi casi si corre il rischio di caricare l’alimentazione di valori simbolici eccessivi, impedendo a sentimenti più veri e profondi di costruire una relazione più forte. Il pranzo rischia di diventare un inutile momento di confronto-scontro, anzichè rappresentare un’occasione privilegiata per comunicare.

Qualunque errore nostro figlio abbia compiuto, non deve arrivare a pensare di aver perso il nostro affetto o addirittura di poter essere per questo abbandonato. Nessun genitore ha realmente sentimenti di questo tipo, ma se le nostre reazioni di collera diventano eccessive, il bambino potrebbe arrivare a percepirsi cattivo: completamente cattivo, per sempre cattivo. E’ molto difficile che un bambino nei primi 5-6 anni di vita possieda già gli strumenti per sopportare senza traumi un’esperienza tanto negativa.

Spesso la nostra collera è superiore a quanto l’ha provocata e le nostre reazioni sono facilmente amplificate dallo stress e dalla stanchezza, senza essere strettamente collegate all’effettivo comportamento del bambino. Se riusciamo a vedere il problema dal suo punto di vista probabilmente esso ci apparirà in tutt’altra luce.

Qualunque decisione dovremo prendere, occorrerà prima riconquistare calma e serenità, e questo riguarda sia noi che lui. Solo a quel punto potremo insieme tentare di analizzare l’errore commesso e individuare eventuali rimedi.

Per educare nostro figlio a comprendere e controllare i propri limiti è necessario che lo aiutiamo a capire dove ha sbagliato, ma anche a fargli comprendere le conseguenze delle sue azioni. Bisognerà anche evitare che venga sommerso dal tumulto dei suoi sentimenti: spesso è lui il primo ad essere irritato e dispiaciuto dal proprio comportamento.

Il bambino deve sentire che gli siamo vicini, che lo capiamo, ma che non siamo contenti di ciò che ha fatto; deve convincersi che gli vogliamo bene ugualmente, ma che gliene vogliamo molto di più se si impegna a comportarsi meglio. Dobbiamo cercare di fargli capire che non è lui che disapproviamo, ma ciò che ha fatto; non è lui ad essere cattivo, è l’azione che ha compiuto ad essere sbagliata: ‘tu non sei cattivo, tu hai fatto il cattivo, ma se vuoi e se ti impegni sei in grado di non fare più ciò che hai fatto, e io sono qui per aiutarti’.

Alla fine dovrebbe restare in lui la consapevolezza che nonostante l’errore commesso la nostra opinione su di lui non è cambiata; anche la sicurezza del nostro perdono può infondergli il coraggio di riconoscere lo sbaglio e di non ripeterlo. Se il suo comportamento lo ha portato ad urlare, sarà utile che lo sgridiamo con voce bassa e calma; se è arrivato ad agitarsi fisicamente, potremo abbracciarlo e contenerlo. Potrà così capire che vogliamo aiutarlo ad essere migliore, che gli vogliamo così bene da volerlo aiutare a non fare altri errori.

Per rinforzare la sua autostima e minimizzare lo sconforto che segue ogni sbaglio, può essere utile fargli notare le situazioni nelle quali è stato capace di controllo e di comportamenti positivi; per questo non servono premi o regali, ma è più importante manifestare la nostra soddisfazione e approvazione, il nostro piacere sarà anche il suo e questo sentimento saprà legarci ancora di più.

Per gran parte dell’infanzia il bambino ha nei propri genitori l’unico riferimento morale: la vera punizione è sapere di aver dispiaciuto alla mamma e al papà; il vero premio è averli fatti contenti.

Per ora la nostra sofferenza e la nostra felicità sono la sua.


Per favore, non toccare!

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Per favore, non toccare!

Se mi concentro per ricordare la frase ricorrente della mia infanzia, senz’altro risento un energico e deciso ‘non toccare!’: sicuramente detto a fin di bene per evitare danni a me stesso e alle cose (e l’aneddotica famigliare abbonda delle mie azioni rovinose).

Ma dopo quasi mezzo secolo, oggi come allora, alla frase citata segue nella mia mente la domanda ‘perché?’. Un po’ è inevitabile che un genitore sia avaro di motivazioni (‘quello che ti dico è giusto ed è per il tuo bene’) però qualche spiegazione ulteriore forse mi avrebbe aiutato – ed educato – ad agire con maggiore consapevolezza, permettendomi di regolare il comportamento in maniera più autonoma anziché seguire i comandi e i desideri della mamma.

In realtà una domanda molto interessante che qualcuno avrebbe potuto pormi sarebbe stata: ‘ma perché tocchi tutto?’. Avrei così potuto rispondere che avevo bisogno di manipolare per verificare forme e consistenza; avrei aggiunto che, limitandomi a guardare, non avrei potuto sapere cosa succede ad un oggetto messo in movimento dalle mie mani. Attraverso questa domanda forse avrei iniziato a riflettere che non è poi necessario toccare tutto, che qualcosa può anche essere soltanto osservato e che gli oggetti non esistono solo per me e per le mie mani.

Oggi sappiamo molto bene che fin dalla prima infanzia la manipolazione autonoma e creativa degli oggetti, e della realtà fisica in generale, rappresenta un’esperienza essenziale per lo sviluppo della mente. Il cervello infatti si sviluppa a seguito degli stimoli che riceve nel corso delle prime esperienze ed è lo stimolo prodotto dall’esperienza a creare effetti sull’espressione del potenziale genetico. In questo senso l’ambiente diventa più importante della genetica, l’esperienza più del temperamento e delle caratteristiche innate.

Il primo segno di un’evoluta capacità cognitiva lo troviamo nella coordinazione tra visione e prensione, all’incirca a metà del primo anno di vita. In seguito il bambino impara ad agire sulla realtà che lo circonda lanciando gli oggetti e producendo suoni attraverso la loro manipolazione. Il piacere di lanciare e farsi riportare un giocattolo in modo ripetuto e senza mai annoiarsi dimostra quanto sia importante per un lattante questo tipo di attività.

Quando il bambino manipola un oggetto ne costruisce automaticamente un’immagine mentale: forma, colore, consistenza, prospettive, rimangono impresse nel suo cervello per sempre e vanno a costituire un database ricco e variegato dove tutti gli oggetto esplorati vengono classificati e collegati tra loro. Inizia così nel primo anno di vita un sapere fondamentale che indirizzerà il successivo sviluppo neurologico e che sarà la base per ogni altra conoscenza.

Il saper fare precede il sapere astratto, come quello verbale e simbolico. Soltanto dopo aver a lungo manipolato la palla il bambino riesce a possederla nella mente sotto forma di immagine mentale; a seguito di questa conoscenza tattile e concreta si svilupperà la conoscenza astratta e sarà possibile attribuirle un nome; così, richiamando il nome, comparirà l’immagine mentale della palla anche in sua assenza.

Toccare serve dunque anche per imparare a parlare e questa esperienza concreta si dimostra necessaria per sviluppare il pensiero e le altre attività cognitive.

Ma quali sono gli oggetti che permettono ad un bambino piccolo le esperienza migliori?

La risposta la può dare soltanto il bambino stesso attraverso il suo comportamento. A questo proposito ricordo uno dei miei figli di pochi mesi manipolare e addirittura parlottare con un voluminoso fiocco rosso residuo di un pacco natalizio. Ma ricordo anche il mio stesso interesse (documentato da una vecchia foto in bianco e nero scattatami all’età di tre anni) per un normalissimo ma misterioso cavatappi. Credo che alla fine il best-seller manipolatorio per ogni gattonatore che si rispetti sia rappresentato dal primo cassetto della cucina (quello più facilmente raggiungibile e adeguatamente controllato dai genitori): vi si potranno trovare cucchiai di legno o di plastica (meglio se colorati), stampini per i biscotti, spatole arrotondate, sottopentola artistici, strofinacci e presine (molto buone quelle della nonna fatte all’uncinetto), vecchi rocchetti oppure quei grossi ganci adesivi di plastica un po’ kitsch ma interessanti,… tutto comunque senza marchio o etichette certificate, e la palestrina progettata per i nuovi Einstein regalataci dai parenti durerà pochi giorni, molto presto il bambino si stancherà dei soliti oggetti che lo guardano muti e distratti.

Ricordiamo inoltre che immagini che non possono essere manipolate o che non possono essere esplorate con tempi e modi controllati dal bambino, risultano inevitabilmente incomprensibili e confondenti e rappresentano quindi un’esperienza destabilizzante e negativa. Immagini di questo tipo sono quelle del video – TV e PC – che non dovrebbero essere utilizzate nei primi 2-3 anni di vita.

L’esperienza del bambino può anche essere favorita o promossa da un adulto, ma deve comunque essere un’esperienza attiva e individuale; per essere efficace deve essere guidata dal bambino stesso, deve cioè iniziare quando a lui la cosa interessa e deve svilupparsi in base alle sollecitazioni che la sua mente articola in quel determinato contesto; anche il termine dell’esperienza avverrà quando l’effetto prodotto avrà raggiunto il suo scopo e la sua pienezza. Questo per dire che l’interferenza dell’adulto è il più delle volte inopportuna e fuorviante, perché l’azione dell’adulto sarà inevitabilmente guidata da categorie mentali del tutto diverse. Il bambino vede cose che noi grandi non possiamo neppure immaginare; un oggetto per lui può avere significati immaginifici inaccessibili alle nostre categorie mentali, per lui davvero ‘l’essenziale è invisibile agli occhi’ (e la frase è in bocca ad un piccolo principe….).

Se l’azione del bambino sarà autonoma e libera da condizionamenti esterni, risulterà anche creativa ed efficace. Il genitore attento si preoccuperà di lasciar fare, di lasciare toccare, di lasciare leccare; per non interferire e per sorvegliare sulla sicurezza, si manterrà a distanza aspettando di essere coinvolto, se e quando necessario.

Tutto questo è un incredibile e favoloso ‘passo a due’ dove il protagonista è il bambino e l’assistente è l’adulto: come due ballerini, si avvicinano e si allontanano, si toccano e si lasciano, a volte piroettano insieme (il più piccolo in braccio al più grande), altre volte il grande si ferma ad osservare e il protagonista prende la scena riempiendo il palcoscenico con la propria vitalità e creatività.

Honegger Fresco ha osservato che dopo i progetti ‘Nati per leggere’ e ‘Nati per la musica’ (che si propongono di stimolare e promuovere la lettura precoce ad alta voce e l’ascolto/produzione di suoni fin dalla nascita), forse sarebbe opportuno lanciare un progetto ‘Nati per fare’, così da sensibilizzare i genitori dell’importanza che i bambini manipolino in maniera libera e creativa.


Baby Blues

Baby Blues articoli di VocidiBimbi.it

Baby Blues

Baby Blues, o più correttamente Maternity Blues, significa avere un momento triste e malinconico nel primo periodo dopo il parto. Proprio come gli schiavi neri d’america che sulle rive del Mississipi cantavano i loro tristi e dolci blues ricordando la patria lontana.

Attenzione: non significa che la mamma è diventata la schiava del suo bambino, però è vero che il mondo di prima è ormai lontano e niente sarà più come allora….

Questa tristezza, o semplice alterazione dell’umore, non è una malattia e neppure un vero disturbo, è semplicemente una difficoltà momentanea che se ne va spontaneamente così come è venuta; se viene voglia di piangere è meglio lasciare che i sentimenti facciano il loro lavoro. Dopo il pianto, come dopo un temporale, torna il sereno e ci scopriamo più felici di prima per aver vissuto, e superato, un’esperienza forte. Nascere e far nascere è una esperienza intensa e ambivalente, anche per il nostro bambino, infatti anche lui piange, e piangere un po’ insieme ci rende più sensibili e più uniti.

Che il Baby Blues non sia una malattia lo dimostra l’alto numero di mamme che nei primi giorni dopo il parto presentano questo tipo di umore: 40-70%, a secondo degli studi. Nonostante il momento di crisi le mamme un po’ tristi riescono a prendersi cura sia del bambino che di loro stesse, senza manifestare bisogni e aiuti particolari (ma un sorriso e due parole di incoraggiamento sono comunque sempre opportuni).

E’ utile sapere che dopo l’esperienza del parto possono nascere altre alterazioni dell’umore, che a volte disturbano la mamma fino a renderle difficile l’accudimento del bambino; in questi casi può essere necessario un sostegno, a volte è opportuno anche l’intervento di uno specialista. Ma come riconoscere un semplice blues da un inizio di depressione?

Intanto possiamo considerare il periodo di comparsa del disturbo: il blues di solito si presenta nei primi giorni dopo il parto e già dopo 10-15 giorni la situazione migliora sensibilmente fino a normalizzarsi, una forma (anche lieve) di depressione invece è più frequente dopo 2-4 mesi dal parto e può peggiorare col tempo. Dobbiamo però tenere presente che la depressione è un disturbo che può colpire in qualunque momento della vita (anche nel corso della gravidanza), e sembra che qualcuno sia predisposto a sviluppare questo disturbo. Dopo il parto il particolare assetto ormonale, la nuova identità acquisita, l’impegno e la responsabilità dell’accudimento, possono destabilizzare l’assetto emotivo della mamma.

Un altro modo per capire se il nostro umore è ancora ‘normale’ o inizia ad essere alterato è quello di valutare le capacità di cura verso se stessi e verso il bambino; è evidente che, soprattutto con il primo figlio, i momenti di preoccupazione non mancano e la paura di fare errori è sempre lì in agguato, ma questa piccola ansia normalmente non impedisce la gestione delle quotidiane occupazioni. La mamma che inizia una vera depressione non è semplicemente triste, può essere inappetente, con molte paure, incapace di dormire e di prendere una qualunque decisione, può essere irrequieta e irritabile verso i parenti e gli amici, a volte anche verso il bambino e gli altri figli; non si sente semplicemente una mamma ‘inadeguata’, ma può sentirsi una mamma ‘cattiva’.

In questi rari casi è necessario chiedere aiuto a qualcuno un po’ competente, che possa verificare (con un semplice colloquio) se effettivamente il nostro stato emotivo sta uscendo dai binari della normalità. A volte la mamma rimuove il suo problema e cerca di farsi vedere forte, nascondendo i suoi veri sentimenti per paura di essere giudicata, ma è come coprirsi con molti vestiti per non far vedere a nessuno che abbiamo preso il morbillo, ammalarsi non è mai un colpa e se abbiamo bisogno di cure dobbiamo farlo sapere a chi ha il compito di curarci.

Il compito di curare i disturbi dell’umore è degli psicologi, che attraverso colloqui particolari sono in grado di farci superare le difficoltà; nel caso il disturbo sia più serio può intervenire lo psichiatra il quale dispone anche di farmaci specifici per trattare situazioni selezionate.

l primo aiuto però dovrebbe venire dall’interno della famiglia, prima di tutto dal marito/compagno che ci conosce ed è in grado di leggere nel nostro sguardo e nei nostri gesti se c’è un problema importante; anche gli altri parenti più vicini e gli amici più intimi possono essere di grande aiuto.

Poi non dimentichiamo l’ostetrica che è una donna attenta e sensibile a questi problemi, competente per capire se siamo ancora in una situazione di normalità; potrà essere lei a favorire e organizzare gli eventuali primi contatti con lo specialista. A volte soltanto parlare e aprirsi con l’ostetrica può favorire la soluzione o la limitazione del nostro disturbo, che riesce così a spegnersi come un fuocherello scoppiato in modo fastidioso e inopportuno.

Comunque ricordiamoci che dopo il parto è inevitabile dover ricostruire un nuovo equilibrio e una nuova organizzazione, anche mentale.Forse possiamo tenere presenti alcuni consigli in grado di sostenere il nostro umore:

  • passeggiamo all’aperto tutti i giorni e se possiamo più volte al giorno
  • cerchiamo di incontrare altre persone e di comunicare
  • confrontiamoci e sfoghiamoci con chi è disposto ad ascoltarci con pazienza
  • riposiamo e dormiamo quando è possibile, trascurando la casa se necessario
  • se i parenti sono intrusivi e creano confusione invitiamoli a farsi una vacanza
  • cerchiamo un aiuto domestico o facciamoci regalare piatti già cucinati
  • evitiamo di saltiamo i pasti e mangiamo un po’ di tutto (anche i dolci)
  • chiediamo al papà di prendersi un po’ di ferie (è adesso che ne abbiamo bisogno!)
  • allattiamo il nostro bambino e facciamoci aiutare a farlo con piacere
  • se abbiamo dubbi sulla salute nostra o del bambino facciamoci rassicurare da qualcuno di cui ci fidiamo

Ricordiamo che:

  • come dice un proverbio africano ‘per crescere un bambino occorre un intero villaggio’, e quindi non basta soltanto la mamma
  • esistono anche bambini un po’ più difficili ed esigenti (ma se è il nostro, è comunque il migliore possibile)
  • si impara a conoscere e ad accudire il bambino gradualmente
  • a volte è amore a prima vista, altre volte ci si affeziona lentamente
  • si procede sempre per tentativi ed errori e nessuno è perfetto, come disse Bettelheim, ogni genitore è quasi perfetto
  • la realtà è sempre diversa da come l’avevamo immaginata (e molte volte è migliore!)

Una mamma ha definito il suo disturbo dell’umore come una ‘mancanza di baricentro’, è sufficiente quindi appoggiarsi per un attimo a qualcuno e il ‘baricentro’ ritornerà al suo posto.