Il tabù del contatto
Prototipo di tutto il prendersi cura del
bambino è nel tenerlo in braccio.
(D.W.Winnicott)
Cercando ricette in vecchi numeri della Cucina Italiana, abbiamo scoperto che negli anni ‘50 la rivista non trattava soltanto di cucina, ma intratteneva le sue lettrici anche con argomenti di puericultura dedicando uno spazio ai quesiti dei lettori. In una di queste lettere e nella relativa risposta, a nostro avviso, appare chiaramente come in quegli anni veniva considerata la relazione genitori-figlio. In parte le idee e le pratiche di quel periodo sono arrivate fino ad oggi e ancora capita di sentirsi chiedere: “tenendolo in braccio non rischio di viziare il mio bambino ?”.
Lettera da un marito.
(…) Il bimbo è nato sano e pacifico, e le prime notti trascorse a casa dopo il ritorno di mia moglie e del piccolo dalla clinica sono state tranquillissime. Ma una sera, all’improvviso, forse per uno di quei lievi malesseri che nei neonati è tanto difficile prevedere, il bambino ha cominciato a piangere. Naturalmente mia moglie ed io ci siamo molto impressionati; siamo balzati dal letto agitatissimi entrambi, abbiamo tirato su il bambino dal lettino e, così, avvolto in una coperta, abbiamo cominciato a cullarlo a turno, camminando su e giù per la stanza e canticchiando a bassa voce. Un po’ per volta il piccolo si è calmato, ma non appena uno di noi accennava a riadagiarlo nella culla, riattaccava con strilli che andavano alle stelle.(…)
Mia moglie afferma che sono stato io che, la prima sera, ho subito sollevato il bambino dalla culla e ho cominciato a vezzeggiarlo; io ribatto che è stata lei che, dopo i vani tentativi di rimetterlo giù, ha continuato a portarlo a spasso per la casa.(…)
Risposta.
(…) Lei dal canto suo, non deve impressionarsi se il bambino riattaccasse a piangere, perché in questo caso (a meno che il bambino non sia ammalato) si tratterà senz’altro di capriccetti che vanno eliminati con fermezza, fino dalla più tenera età. Forse le prime volte il piccolo, non vedendosi più accontentato, continuerà a piangere, ma lo lasci fare; quando avrà visto vani tutti i suoi mezzi di persuasione, si calmerà da solo. Questa non è “durezza di cuore” (come qualcuno ancora afferma), bensì l’unico sistema per correggerlo da questa cattiva abitudine (…).
da La Cucina Italiana Dicembre 1956
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Questo padre si aspettava un figlio pacifico che lo lasciasse tranquillo; stava filando tutto liscio quando una notte improvvisamente, senza nessun segno premonitore, il bambino ha iniziato a piangere. Nessun dubbio che quel pianto rappresentasse una modalità di esprimersi del bambino; quel pianto è vissuto soltanto come una tremenda scocciatura che interrompe il sonno. Questi due genitori sono impressionati dal pianto, come se loro figlio si fosse messo ad abbaiare o a belare o come se a loro stessi non fosse mai capitato di piangere. Fortunatamente, nella loro totale incapacità e incomprensione, vengono colti dall’istinto, quel istinto innato, fino a quel momento sopito, ma risvegliato e sollecitato da quel pianto provvidenziale. Istintivamente fanno quello che dovevano fare: lo prendono in braccio e lo cullano. Fanno, inconsapevolmente, ciò che da migliaia di anni ogni genitore fa col proprio bambino nei momenti di difficoltà. Questi poveri genitori subiscono però la frustrazione dell’insuccesso (ma sembra che non ne siano per nulla abituati) e vedendo gli strilli andare dritti alle stelle (o forse semplicemente al piano di sopra), si interrogano in quale imperdonabile errore sono caduti. Nella prima ipotesi è il padre ad essere colpevole di grave vezzeggiamento, colpevole cioè di avere espresso sentimenti d’amore verso il proprio bambino; la seconda ipotesi vede la madre incapace di far stare il bambino al suo posto, cioè nella culla (ma potremmo definirla cuccia o gabbia). Questa madre si prende il lusso di girare per casa col bambino in braccio, e sembra quasi provarne piacere; nessun dubbio sul perché nel resto del mondo, da millenni, milioni di madri (e di padri) vivono e lavorano con un figlio piccolo aggrappato addosso (ma forse fanno così perché sono poveri).
La risposta dell’esperto permette di capire perché, in questa società occidentale della passata generazione, si arrivasse con tanta naturalezza a formulare quesiti tanto assurdi. La risposta dell’esperto è senz’altro e di gran lunga peggiore della domanda e soprattutto dimostra quanto, ad ogni livello culturale, quella società civile era lontana dall’aver compreso il mondo dell’infanzia. Probabilmente in nessuna realtà pretecnologica sarebbe nata una risposta come quella costruita dal nostro esperto, dimostrando come il maternage e la puericultura non hanno delle vere basi scientifiche, ma sono principalmente il prodotto di fattori culturali e sociali.
L’esperto fa diagnosi differenziale: non trattandosi di malattia, il piccolo è affetto da capriccetti (nessun dubbio che psiche e soma possano avere qualche piccolo punto di contatto); ma niente paura, perché i capriccetti possono essere guariti, l’importante è agire in fretta e con fermezza. L’esperto, non lo dice, ma fa intendere che questo inconveniente è stato provocato dal comportamento poco corretto di questi genitori che al primo pianto sono caduti nella trappola tesagli dal loro furbo piccoletto. E’ necessario riportare tutto nel giusto binario: il bambino, anche se ancora piccolo (ma forse proprio per questo) deve capire quale è il suo posto e quale è l’ordine delle cose. Il suo pianto non è provocato da alcuna malattia, pertanto è irrazionale e privo di diritti; occorrerà un po’ di tempo, ma alla fine comprenderà che i suoi richiami non otterranno risposta e ogni suo tentativo di persuasione non potrà che fallire. Si cerca di convincere quei due poveri genitori sull’utilità che il loro bambino sperimenti fin dalla tenera età la frustrazione di non avere risposte d’amore provando sulla propria pelle l’angoscia dell’abbandono; questo lattante dovrà arrivare a non desiderare più l’abbraccio e il contatto, tanto sono stati frustrati i suoi tentativi.
Alla fine all’esperto viene un dubbio riguardo la “durezza” di un tale consiglio, ma il cattivo pensiero viene velocemente rimosso attraverso il giudizio insindacabile che questi pianti altro non sono che cattive abitudini (con le quali stranamente quasi tutti i bambini nascono) e dalla certezza granitica che comunque non esistono altri mezzi di correzione. Resistere ai richiami del bambino è faticoso (e probabilmente innaturale), ma viene fatto tutto per il suo bene e per la sua educazione (oggi potremmo dire per il suo addomesticamento). Poco importa se da grande questo bambino, che ha sperimentato dai primi giorni di vita la perdita di un abbraccio amoroso, potrà ritrovarsi incapace d’amare, indeciso tra esprimere varie forme di nevrosi o una sana e liberatoria violenza.
PS. Forse a qualcuno può essere sfuggito, ma l’articolo è stato intitolato lettera da un marito e non lettera da un papà…