Il tabù del contatto

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Il tabù del contatto

Prototipo di tutto il prendersi cura del
bambino è nel tenerlo in braccio.
(D.W.Winnicott)

Cercando ricette in vecchi numeri della Cucina Italiana, abbiamo scoperto che negli anni ‘50 la rivista non trattava soltanto di cucina, ma intratteneva le sue lettrici anche con argomenti di puericultura dedicando uno spazio ai quesiti dei lettori. In una di queste lettere e nella relativa risposta, a nostro avviso, appare chiaramente come in quegli anni veniva considerata la relazione genitori-figlio. In parte le idee e le pratiche di quel periodo sono arrivate fino ad oggi e ancora capita di sentirsi chiedere: “tenendolo in braccio non rischio di viziare il mio bambino ?”.

Lettera da un marito.

(…) Il bimbo è nato sano e pacifico, e le prime notti trascorse a casa dopo il ritorno di mia moglie e del piccolo dalla clinica sono state tranquillissime. Ma una sera, all’improvviso, forse per uno di quei lievi malesseri che nei neonati è tanto difficile prevedere, il bambino ha cominciato a piangere. Naturalmente mia moglie ed io ci siamo molto impressionati; siamo balzati dal letto agitatissimi entrambi, abbiamo tirato su il bambino dal lettino e, così, avvolto in una coperta, abbiamo cominciato a cullarlo a turno, camminando su e giù per la stanza e canticchiando a bassa voce. Un po’ per volta il piccolo si è calmato, ma non appena uno di noi accennava a riadagiarlo nella culla, riattaccava con strilli che andavano alle stelle.(…)

Mia moglie afferma che sono stato io che, la prima sera, ho subito sollevato il bambino dalla culla e ho cominciato a vezzeggiarlo; io ribatto che è stata lei che, dopo i vani tentativi di rimetterlo giù, ha continuato a portarlo a spasso per la casa.(…)

Risposta.

(…) Lei dal canto suo, non deve impressionarsi se il bambino riattaccasse a piangere, perché in questo caso (a meno che il bambino non sia ammalato) si tratterà senz’altro di capriccetti che vanno eliminati con fermezza, fino dalla più tenera età. Forse le prime volte il piccolo, non vedendosi più accontentato, continuerà a piangere, ma lo lasci fare; quando avrà visto vani tutti i suoi mezzi di persuasione, si calmerà da solo. Questa non è “durezza di cuore” (come qualcuno ancora afferma), bensì l’unico sistema per correggerlo da questa cattiva abitudine (…).

                                                                                          da La Cucina Italiana Dicembre 1956

~

Questo padre si aspettava un figlio pacifico che lo lasciasse tranquillo; stava filando tutto liscio quando una notte improvvisamente, senza nessun segno premonitore, il bambino ha iniziato a piangere. Nessun dubbio che quel pianto rappresentasse una modalità di esprimersi del bambino; quel pianto è vissuto soltanto come una tremenda scocciatura che interrompe il sonno. Questi due genitori sono impressionati dal pianto, come se loro figlio si fosse messo ad abbaiare o a belare o come se a loro stessi non fosse mai capitato di piangere. Fortunatamente, nella loro totale incapacità e incomprensione, vengono colti dall’istinto, quel istinto innato, fino a quel momento sopito, ma  risvegliato e sollecitato da quel pianto provvidenziale. Istintivamente fanno quello che dovevano fare: lo prendono in braccio e lo cullano. Fanno, inconsapevolmente, ciò che da migliaia di anni ogni genitore fa col proprio bambino nei momenti di difficoltà. Questi poveri genitori subiscono però la frustrazione dell’insuccesso (ma sembra che non ne siano per nulla abituati) e vedendo gli strilli andare dritti alle stelle (o forse semplicemente al piano di sopra), si interrogano in quale imperdonabile errore sono caduti. Nella prima ipotesi è il padre ad essere colpevole di grave vezzeggiamento, colpevole cioè di avere espresso sentimenti d’amore verso il proprio bambino; la seconda ipotesi vede la madre incapace di far stare il bambino al suo posto, cioè nella culla (ma potremmo definirla cuccia o gabbia). Questa madre si prende il lusso di girare per casa col bambino in braccio, e sembra quasi provarne piacere; nessun dubbio sul perché nel resto del mondo, da millenni, milioni di madri (e di padri) vivono e lavorano con un figlio piccolo aggrappato addosso (ma forse fanno così perché sono poveri).

La risposta dell’esperto permette di capire perché, in questa società occidentale della passata generazione, si arrivasse con tanta naturalezza a formulare quesiti tanto assurdi. La risposta dell’esperto è senz’altro e di gran lunga peggiore della domanda e soprattutto dimostra quanto, ad ogni livello culturale, quella società civile era lontana dall’aver compreso il mondo dell’infanzia. Probabilmente in nessuna realtà pretecnologica sarebbe nata una risposta come quella costruita dal nostro esperto, dimostrando come il maternage e la puericultura non hanno delle vere basi scientifiche, ma sono principalmente il prodotto di fattori culturali e sociali.

L’esperto fa diagnosi differenziale: non trattandosi di malattia, il piccolo è affetto da capriccetti (nessun dubbio che psiche e soma possano avere qualche piccolo punto di contatto); ma niente paura, perché i capriccetti possono essere guariti, l’importante è agire in fretta e con fermezza. L’esperto, non lo dice, ma fa intendere che questo inconveniente è stato provocato dal comportamento poco corretto di questi genitori che al primo pianto sono caduti nella trappola tesagli dal loro furbo piccoletto. E’ necessario riportare tutto nel giusto binario: il bambino, anche se ancora piccolo (ma forse proprio per questo) deve capire quale è il suo posto e quale è l’ordine delle cose. Il suo pianto non è provocato da alcuna malattia, pertanto è irrazionale e privo di diritti; occorrerà un po’ di tempo, ma alla fine comprenderà che i suoi richiami  non otterranno risposta e ogni suo tentativo di persuasione non potrà che fallire. Si cerca di convincere quei due poveri genitori sull’utilità che il loro bambino  sperimenti fin dalla tenera età la frustrazione di non avere risposte d’amore provando sulla propria pelle l’angoscia dell’abbandono; questo lattante dovrà arrivare a non desiderare più l’abbraccio e il contatto, tanto sono stati frustrati i suoi tentativi.

Alla fine all’esperto viene un dubbio riguardo la “durezza” di un tale consiglio, ma il cattivo pensiero viene velocemente rimosso attraverso il giudizio insindacabile che questi pianti altro non sono che cattive abitudini (con le quali stranamente quasi tutti i bambini nascono) e dalla certezza granitica che comunque non esistono altri mezzi di correzione. Resistere ai richiami del bambino è faticoso (e probabilmente innaturale), ma viene fatto tutto per il suo bene e per la sua educazione (oggi potremmo dire per il suo addomesticamento). Poco importa se da grande questo bambino, che ha sperimentato dai primi giorni di vita la perdita di un abbraccio amoroso, potrà ritrovarsi incapace d’amare, indeciso tra esprimere varie forme di nevrosi o una sana e liberatoria violenza.

PS. Forse a qualcuno può essere sfuggito, ma l’articolo è stato intitolato lettera da un marito e non lettera da un papà…


Allattare é semplice

Allattare è semplice articoli di VocidiBimbi.it Allattare é semplice

Allattare al seno è una cosa semplice. Se così non fosse, probabilmente ci saremmo estinti molti millenni fa; i nostri cuccioli, infatti, sono stati geneticamente programmati quando non c’erano né biberon né latte artificiale. Dagli studi scientifici di cui disponiamo, sappiamo che almeno il 95 % delle donne dovrebbe essere in grado di allattare i loro piccoli senza aver bisogno di integrazioni con altri alimenti.

Per riuscire ad allattare occorrono essenzialmente due cose: un seno e un bambino che succhia. Poi è utile aggiungere un pò di motivazione e molta pazienza. Quando un neonato nasce prematuro o con difetti particolari, può capitare che non riesca a succhiare con sufficiente forza; in tutti gli altri casi è sufficiente offrire il seno quando il bambino è sveglio e dimostra di aver voglia di mangiare.

Nei primi giorni di vita il neonato deve ancora imparare a gestire la fame e la sete: nella pancia infatti il nutrimento arriva attraverso la placenta con ritmo costante ed è già tutto digerito !
L’istinto insegna al bambino a richiedere il seno molto spesso; il suo cervello infatti sembra già informato che il latte contiene prevalentemente zuccheri, molto utili per avere rapidamente energia disponibile, ma poco efficaci per togliere la fame per tante ore.

Nei primi giorni il seno produce il colostro, che è un latte ricco di proteine, vitamine e anticorpi, che serve per rendere l’intestino adatto alla digestione del latte più ricco che arriverà dopo 2-3 giorni. Successivamente al latte di transizione, ad alto contenuto di zuccheri, arriverà il latte definitivo che presenta una quota di grassi tale da permettere al bambino di sentirsi sazio per un periodo di tempo maggiore.

Come si può capire, il seno produce il latte giusto al momento giusto, favorendo l’attivazione della funzione digestiva in maniera ottimale e graduale. Non esiste quindi il latte poco nutriente e non serve a nulla analizzare il latte prodotto dal seno. Può capitare, soprattutto nei primi giorni, che il seno produca poco latte, in questo caso il bambino chiederà di mangiare un pò più spesso e compenserà da solo questa transitoria difficoltà.

Nei primi giorni tutti i bambini che nascono a termine e con peso adeguato (maggiore di 2500 grammi), hanno scorte caloriche sufficienti per sopportare una alimentazione scarsa; sarà comunque molto importante ottenere una adeguata suzione al fine di mantenere alta la stimolazione del seno.

Soprattutto dopo la nascita del primo figlio, il seno ha bisogno di qualche giorno per imparare a svolgere questa nuova funzione. Ci penseranno due potenti ormoni a regolare questa attività: la prolattina e l’ossitocina. Questi ormoni sono prodotti dal cervello della mamma quando il capezzolo viene stimolato dal bambino; lo stress e la paura possono ostacolare la produzione di queste due sostanze.

L’ossitocina, dopo il parto, possiede anche la doppia funzione di provocare la contrazione dell’utero e quindi di impedire una eventuale emorragia. Ancora una volta la natura ci dimostra che nulla succede per caso e che tutto quanto avviene è perfettamente programmato e selezionato in anni di evoluzione.

Se noi siamo il prodotto della nostra evoluzione, anche l’allattamento dovrà essere considerato come la migliore invenzione che la natura è stata capace di offrirci; qualunque alternativa più efficace si sarebbe imposta sostituendo i precedenti sistemi. L’industria infatti non ha mai cercato di inventarsi un latte migliore di quello materno, ma ha sempre lavorato per ottenere un prodotto più simile possibile; questo è molto importante per quel 5 % di mamme che presentano una produzione di latte molto ridotta (ipogalattia) o per quelle che hanno un figlio prematuro o con difetti; per tutte le altre mamme non sembra logico che venga utilizzato il latte di imitazione potendo disporre dell’originale.

E’ inutile cercare di fare paragoni precisi tra il latte artificiale e quello materno. Il latte prodotto dal seno contiene elementi che provengono dal corpo della mamma, è ottenuto semplicemente dal suo sangue, proprio come succedeva nella pancia attraverso la placenta. Col latte della mamma il bambino continua a mangiare la mamma, continua a crescere cibandosi di quanto sua mamma è capace di fornirgli. Attraverso il suo latte la mamma trasmette al bambino non soltanto elementi nutritivi, ma invia anche sostanze (come gli ormoni, gli anticorpi, le endorfine, ecc.) che rappresentano se stessa, la sua storia, le sue emozioni, i suoi umori; attraverso il latte, parallelamente alla nutrizione, si ottiene una comunicazione allo stesso tempo fisica e mentale che aiuta entrambi a conoscere l’altro e se stessi. La madre si riconosce mamma di quel bambino, quel bambino si riconosce cucciolo di quella mamma.

Allattando col biberon e usando latte artificiale questa importante comunicazione può avvenire ugualmente, ma con più difficoltà, proprio perchè vengono a mancare molte preziose sostanze veicolate dal latte. In questo caso potrebbe essere utile compensare col contatto pelle-pelle, con gli sguardi, con le carezze, con i massaggi, con la voce…

E’ importante che ogni mamma sia consapevole che quando attacca al seno il bambino non lo sta semplicemente alimentando; per questo è utile sostenere ogni mamma perchè riesca ad allattare al seno anche soltanto per brevi periodi o per qualche poppata al giorno.

Se queste considerazioni sono convincenti e crediamo che allattare al seno rappresenti una straordinaria opportunità, possiamo passare a considerare le modalità che si sono dimostrate più efficaci per un buon allattamento.

  • E’ fondamentale attaccare il bambino al seno precocemente dopo il parto; nelle prime due ore di vita il bambino è più sveglio e il seno inizia subito ad attivarsi. Per il bambino questo primo contatto rappresenta la prima esperienza del mondo esterno e gli permette di trovare nel seno della mamma un sicuro riferimento per adattarsi alla sua nuova condizione.
  • Nei primi giorni è necessario attaccare il bambino molto spesso, tutte le volte che si mostra interessato a succhiare; questo serve per gratificare il bambino, ma soprattutto per mantenere alti i livelli degli ormoni della lattazione (un seno poco stimolato produrrà poco latte e lo farà molto lentamente).
  • Per allattare veramente a richiesta bisogna cercare di avere il bambino in camera e accettare di poter dormire per periodi brevi (considerando che un neonato dorme almeno 16 ore al giorno, bisognerebbe cercare di riposare quando riposa lui).
  • Se siamo al primo figlio, o se i nostri eventuali precedenti allattamenti non sono stati positivi, dobbiamo farci aiutare dal personale dell’ospedale e poter avere qualche consiglio prezioso per evitare di dover imparare tutto sulla nostra pelle (e su quella del nostro bambino).
  • Dobbiamo resistere alla tentazione di dare al bambino biberon e altri liquidi; sarà eventualmente il pediatra a segnalarci eventuali problemi e a prescrivere il latte artificiale come fosse una medicina.

Ricordiamoci che generalmente i neonati calano nei primi 2-3 giorni circa il 10 % del peso che hanno alla nascita e poi, quando iniziano a mangiare un pochino di più, smettono di calare e possono mantenersi ancora per qualche giorno senza crescere (in pratica quello che assumono bilancia quello che consumano); soltanto tra la prima e la seconda settimana di vita inizia l’aumento di peso che porta, in tempi più o meno lunghi, a recuperare il peso della nascita. E’ un processo che dura per tutte le prime due settimane dopo il parto e che richiede pazienza e fiducia nelle capacità proprie e del bambino.

Le persone che stanno vicino alla mamma (parenti e personale sanitario) devono essere tanto bravi da dare sostegno senza minimizzare eventuali problemi, ma fornendo coraggio, evitando informazioni inutili e aiutando in modo personalizzato.

In ospedale le mamme dovranno essere assistite nella fase di avvio dell’allattamento (che è la più importante), ma poi una volta a casa occorrerà ancora sostegno per riuscire a proseguire l’allattamento senza troppa fatica o incertezze. Alla fine della prima settimana di vita e nel corso della seconda, l’ostetrica o il pediatra o altre mamme esperte potranno contribuire a risolvere eventuali difficoltà e soprattutto aiutare la mamma a non sentirsi sola.

In particolare il papà può svolgere un ruolo molto attivo nel sostenere, fisicamente e psicologicamente, la moglie condividendo i problemi e aiutando a trovare le soluzioni più semplici e più logiche. Il papà è colui che può veramente condividere con la mamma l’emozione e il piacere dell’allattamento; ancora una volta, come durante tutta la gravidanza, la sua partecipazione emotiva alla nascita del figlio diventa un vero valore aggiunto al rapporto madre-bambino.

L’allattamento al seno è anche una delle cose più ecologiche che possiamo fare; non produciamo alcun tipo di inquinamento e non provochiamo alcuna alterazione ambientale. E’ anche la maniera più economica di nutrire un bambino; è praticamente a costo zero. Anche dovendo fare poppate frequenti, si potrà ottenere un grande risparmio di tempo essendo il latte del seno già pronto, alla temperatura giusta e già presente in un contenitore sterile.

E’ probabilmente giunto il momento di tentare una strada più pulita e semplice, togliendo l’allattamento dall’ambito improprio della medicina riportandolo nel campo delle cose normali e quotidiane; la medicina potrà invece continuare ad occuparsi di quei casi selezionati per i quali l’allattamento presenta ostacoli di natura sanitaria (ingorgo, ragadi, mastite, infezioni materne, assunzioni di farmaci da parte della mamma, ecc.).

Per favorire questo cambio di rotta nel promuovere e sostenere l’allattamento al seno, l’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità) insieme all’UNICEF da alcuni anni promuove corsi per gli operatori sanitari al fine di divulgare conoscenze e strategie. Molti punti nascita stanno lavorando con i propri medici, infermiere, ostetriche e assistenti sanitarie per diffondere queste raccomandazioni.

Per riuscire ad essere maggiormente incisivi l’OMS nel 1992 ha redatto i cosiddetti “10 Passi” per segnalare quali sono i punti di maggiore importanza da introdurre in tutti i punti nascita. Gli ospedali che riescono a realizzare queste indicazioni, dopo essere stati verificati da una commissione internazionale, ricevono la certificazione di “Ospedale amico dei bambini”. In Italia soltanto 7 ospedali sono riusciti ad avere questo ambito riconoscimento. I “10 Passi” però devono essere conosciuti da tutti e tutti devono, nel loro ambito, impegnarsi perchè sia possibile realizzarli in qualunque luogo vi sia la nascita di un bambino.

Per chi desidera approfondire segnaliamo che nella nostra sezione link potrete trovare gli indirizzi dei siti più ricchi e documentati su questo argomento; altre informazioni relative ai vantaggi dell’allattamento al seno e alcune indicazioni per una corretta tecnica di attaccamento al seno potrete trovarle nell’articolo “Allattamento al seno” curato da Ciro Capuano.

Un altra pagina da leggere riguarda i famosi “10 Passi” dell’OMS/UNICEF.


Latte ed emozioni

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Latte ed emozioni

L’allattamento è la prosecuzione della gravidanza, allorché il bambino si è trasferito dall’interno all’esterno, si è separato dalla placenta, ha afferrato il seno e beve non più rosso, ma bianco sangue. Beve sangue? Sì, sangue della madre, perché è questa la legge della natura.(J. Korczak, 1920)

Silvia è attaccata al seno, la mamma la tiene tra le braccia e la guarda. Nei primi minuti Silvia è vorace e concentrata, ha gli occhi quasi chiusi, deglutisce in fretta, ma poi rallenta e si rilassa, apre gli occhi e guarda in alto. Dal suo punto di vista vede il mento della mamma, una linea curva come una luna, e al di sopra un’altra linea curva più piccola ed espressiva: è la bocca che si apre in un sorriso in risposta allo sguardo di Silvia. Sopra alla seconda linea curva compaiono gli occhi della mamma, due punti perfettamente simmetrici; questi punti del viso emettono una luce particolare che entra in Silvia e la abbraccia dall’interno. Anche gli occhi di Silvia emettono luce e l’incontro è un vero cortocircuito che produce energia e ricarica i loro sentimenti, già colmi.

Silvia, mentre succhia al seno, sente il latte (alla stessa temperatura della pelle del capezzolo) entrarle nello stomaco, al centro del suo corpo, appena sotto al cuore. Questo liquido annulla la fame, che per Silvia significa minaccia alla sopravvivenza, paura di morire. L’arrivo del latte dentro di lei vuol dire certezza di vivere, piacere di esistere.

Mentre il liquido scende nel suo corpo per poi distribuirsi attraverso il sangue a tutte le cellule, Silvia muove le labbra e la bocca con un complesso movimento capace di procurarle profondo piacere, lo stesso provato nella pancia quando entrava in bocca liquido amniotico o quando riusciva a mettersi in bocca un dito. Oltre alla bocca, anche il resto del corpo partecipa; Silvia è accoccolata nella nicchia tra le braccia e la pancia della mamma, il corpo della madre la avvolge. La mamma ora è il suo nido; non una semplice protezione, per lei ora una vera e propria identificazione. Questa posizione permette a entrambe di proseguire una relazione che le ha viste una dentro l’altra.

Più tardi Silvia potrà restare da sola, a distanza dalla mamma, ma ora è il momento di ritrovarsi, come due amanti che sono stati separati durante il giorno e alla sera ritrovano il loro contatto fisico ed emotivo, si uniscono per potersi separare nuovamente e nuovamente ritrovare. Forse è per questo che i neonati devono alimentarsi così frequentemente.

Ma Silvia non è ancora capace di riconoscere se stessa, la propria individualità e il proprio corpo, sente se stessa come un’unica sensazione che parte dal suo interno e si dilata fino a dove i suoi sensi sono in grado di giungere. Silvia sente il seno in bocca, e il contatto con il corpo della mamma, come se questo fosse un prolungamento del suo corpo; magicamente, quando apre la bocca sente il seno entrare e a quel punto il seno diventa una parte di lei. La mamma quindi non è ancora una persona con una propria identità e un proprio corpo, per Silvia è ancora una parte di sé, un completamento di se stessa, un filtro tra lei e il resto del mondo (misterioso e minaccioso perchè ancora non sufficientemente sperimentato).

Succhiando al seno Silvia coinvolge tutti i suoi sensi, senza riuscire però ancora a razionalizzare, separare e catalogare le proprie percezioni. Vive cioè una realtà sinestesica, dove tutte le sue percezioni sono legate e mescolate tra loro; per lei gli odori possono avere un colore, e un raggio di luce può essere afferrato e assaggiato. Così quando Silvia succhia il latte della mamma, non succhia soltanto il suo latte, ma beve con gli occhi il viso della mamma, beve con l’olfatto l’odore della mamma, beve con il tatto la pelle della mamma, beve con l’udito i suoni prodotti dalla mamma (oltre alla voce, anche il rumore del cuore e del respiro, proprio come avveniva nell’utero).

Durante la poppata i suoi sensi sono estremamente attivi e sinergici; così nel momento della poppata sono tantissimi i bisogni che vengono contemporaneamente soddisfatti: fame, sete, calore, contenimento, contatto, visione, …e per un po’ si realizza un nuovo rassicurante equilibrio.
Come facciamo a dire che Silvia sta mangiando, che si sta alimentando? Silvia si sta certamente nutrendo, ma il latte che succhia rappresenta soltanto una parte del suo nutrirsi; sta mangiando la mamma e si sta cibando di emozioni e sensazioni. Non è soltanto il latte a nutrire le sue cellule, anche tutte queste forti emozioni la nutrono, in particolare arricchiscono il suo cervello deputato ad assorbire e contenere le esperienze vissute.

Nei primi mesi di vita, durante la poppata, Silvia vive il momento più significativo della propria esistenza: in quel momento tutto acquista senso e coerenza. Crescendo, il momento del pasto potrà separarsi dalle altre esperienze, anche se cibarsi rimarrà un’esperienza da condividere con gli altri e il cibo manterrà un valore non soltanto nutritivo.

Attraverso l’allattamento la madre di Silvia unisce nutrimento biologico a nutrimento emotivo, trasformandosi in esperienza totalizzante. Così come dalla sua placenta per nove mesi sono passate le sostanze per far vivere e far crescere la sua bambina, dopo la nascita è il suo seno a fornire sostanze vitali che, come il sangue placentare, hanno origine direttamente dal suo corpo. Silvia cioè continua a mangiare la mamma.

Già nel 1547 Ludovico Dolce definiva il latte di donna ‘sangue bianco’, e spiegava: ‘provide la natura alla nudritura de fanciulli, convertendo con meraviglioso artificio il sangue in latte, affine che quello aspetto non spaventasse’. Effettivamente il latte della mamma, mantenendo Silvia in stretta dipendenza biologica ed emotiva con la mamma, permette una separazione dal corpo materno più lenta e progressiva, e per questo più facilmente sopportabile.

Nei primo periodo dopo il parto durante la suzione Silvia può addormentarsi direttamente in sonno REM, cominciando immediatamente a sognare; ma a sognare cosa? Probabilmente di continuare a poppare oppure di essere tornata nella pancia ‘dove ogni bisogno è soddisfatto prima di poter essere percepito’. Nei mesi successivi invece comincerà a poppare e intanto a toccare la mamma e poi a parlare con lei; alle parole della mamma risponderà con in suoi versetti, a volte tenendo il capezzolo in bocca, altre volte staccandosi e riattaccandosi una volta finito il suo discorso.

La poppata diventa così un dialogo intimo e profondo, dove il cibarsi diventa semplicemente una occasione o uno strumento per raggiungere insieme ben altri luoghi dell’essere, dell’essere mamma e dell’essere Silvia.


NonniNonne

Nonni nonne articoli di VocidiBimbi.itNonniNonne

Ogni cucciolo di mammifero nasce da una madre e da un padre e viene da loro accudito e nutrito. Solo il cucciolo d’uomo invece ha il privilegio di essere cullato e coccolato, oltre che dai propri genitori, anche da un nonno e da una nonna.

Nel mondo animale quando una generazione termina il proprio ciclo riproduttivo saluta e se ne va;  i mammiferi che hanno la possibilità di sopravvivere ai figli e ai nipoti, devono però continuare a procreare proseguendo nella loro funzione di genitori.

Tra gli altri animali sembra quindi non esistere il ruolo di nonno. E’ conosciuta qualche eccezione, ad esempio tra le balene e gli elefanti (non se ne offendano le nonne): questi longevi animali hanno un lungo periodo di vita successivo alla fase procreativa, ma non sviluppano una relazione con i nipoti simile a ciò che avviene nella nostra specie.

L’osservazione del mondo naturale sembra indicarci che, biologicamente parlando, i nonni non servono e pertanto il loro ruolo deve avere altri significati più profondi e nascosti.

Tra i mammiferi più evoluti spesso la madre è aiutata e sostenuta nella faticosa funzione di curare i  cuccioli (di solito da altre giovani femmine); gli etologi parlano di allomadri per definire queste primitive baby-sitter e generalmente i piccoli si legano molto a queste figure che forniscono loro protezione e nutrimento quando la madre non è presente.

Nella nostra specie non sembra che i nonni abbiano la funzione di sostituire i genitori: il nonno cioè non servirebbe per sostenere la famiglia, nè la nonna avrebbe la funzione di nutrire i cuccioli della propria figlia (oltre a non avere latte, spesso ha troppi acciacchi). Questo ruolo primario i nonni l’hanno già svolto e lo terminano quando i loro figli diventano a loro volta genitori.

Quando nasce un bambino quindi nascono due genitori e, normalmente, nascono quattro nonni. Quale significato nasconde il nascere nonno ?

La risposta a questa domanda probabilmente la conosce soltanto un nipotino, il quale sa perfettamente di essere per i suoi genitori un figlio, ma per i suoi nonni un nipotino.

Ogni bambino nei primi anni (ma se può anche da adolescente) sta ben attento a non confondere i due ruoli; sbaglierà e si comporterà come un figlio solo se i nonni sbaglieranno e si comporteranno con lui come genitori.

Se per un momento scendiamo a vedere il mondo con gli occhi dei bambini, ci rendiamo conto che non vorremmo avere dei genitori giovani e degli altri genitori più vecchi; vorremmo invece dei nonni diversi dai genitori.

Vorremmo dei nonni liberi da impegni di lavoro e con lo stesso tempo a disposizione che abbiamo noi, che amino i dolci come li amiamo noi (anche se poi hanno il diabete), che attraverso spesse lenti da vicino e da lontano vedano il mondo strano e diverso come lo vediamo noi; e vorremmo nonni che confondono il presente con il passato, le storie vere con quelle inventate.

Vorremmo nonni diversi dai nostri genitori, perché la nostra specie è riuscita ad inventarsi una figura nuova e speciale, che esiste solo per noi.

 I vecchi e i bambini hanno la stessa visione del mondo probabilmente perché vivono lo stesso mistero, il mistero della vita che è appena cominciata e quello della vita che va a concludersi.

E’ opportuno che i genitori non entrino in questa relazione quasi magica; è utile che ne rispettino il segreto in attesa del giorno nel quale potranno nascere nonni anche loro.

I nonni, è bello che ricordino e raccontino i tempi in cui erano loro a fare i genitori, ma senza pretese di essere creduti nè tantomeno di essere imitati dai loro figli; il ricordo lontano infatti sfuma e confonde la realtà e poi ogni genitore ha diritto di inventarsi il suo modo…altrimenti potrebbe  perdersi tutto il divertimento.

Quando il bambino sarà cresciuto i nonni potrebbero non esserci più o essere troppo malati, ma dentro di lui continuerà a rimanere qualcosa di caldo dai contorni sfumati: sarà quel tempo con poche pretese, e ancor meno divieti, passato insieme ai nonni.

Se poi qualche bambino non ha i nonni perchè sono già andati via, è sempre possibile fargliene adottare qualcuno libero da nipotini; infatti la scienza ancora non è riuscita a scoprire se sono i nonni che servono ai nipotini per crescere o se sono i nipotini che servono ai nonni per invecchiare felici.


Pianto

piantoUE UE UE UE UE UE UE UE . . .

Piango fin che mi pare e piango più che posso.
Piango perché non so parlare.
Piango per solidarietà con i miei amici.
Piango come piangono i bambini in tutto il mondo.
Piango così qualcuno prima o poi verrà.
Piango perché non so cosa fare.
Piango perché sono stufo di guardare il soffitto bianco.
Piango perché ho fatto tanta cacca.
Piango perché ho caldo, perché ho freddo,
perché sto bene, ma non voglio darvi la soddisfazione.
Piango non so perché, ditemelo voi se lo sapete,
oppure chiedetelo al pediatra che lui ha studiato.
Piango perché per ora è la cosa che so fare meglio.
Piango perché così creo un gran bel putiferio.
Piango perché anche voi alla mia età piangevate.
Non ricordo più perché ho iniziato a piangere,
ma prima un motivo sono sicuro che c’era.
Ovviamente piango perché ho fame e non
arrivo ancora alla maniglia del frigo.
Dopo il pasto piango perché ho mangiato troppo
e ho l’aria nella pancia.
Piangere però non fa male, non si muore di pianto,
anzi se non piangessi morirei.
Quando piango sono sicuro che vi ricordate
di me e che state male per me.
In realtà io non piango mai per niente, quando piango è perché voglio
qualcosa e alla mia età i desideri e bisogni corrispondono sempre.
Perciò non preoccupatevi troppo e sforzatevi invece di capire
di cosa ho bisogno così ci mettiamo tutti calmi e tranquilli.
E fra poco si ricomincia…..


Sorriso

Sorriso articoli di VocidiBimbi.itSorriso

Qualcuno ha detto che fa più rumore un albero che cade di una foresta che cresce. Potremmo dire lo stesso del sorriso e del pianto di un neonato: fanno più notizia cinque minuti di squillanti grida che una serie di silenziosi sorrisi.

Probabilmente i neonati sorridono già in utero; sicuramente sorridono già nei primi minuti dopo la nascita appena qualche mano gentile si preoccupa di asciugarli e di abbracciarli.

Il sorriso delle prime settimane avviene frequente nel sonno e coinvolge principalmente la bocca, con scarsa partecipazione degli occhi. E’ un sorriso che assomiglia molto a quello degli altri animali e sembra un semplice movimento della mimica facciale; non sappiamo a cosa corrisponde nella mente del neonato e generalmente non è possibile associare questo sorriso a nessuna situazione contingente particolare.

Nel corso del secondo mese di vita, quando il bambino comincia a vedere distintamente il volto della mamma, cominciamo a vedere i veri sorrisi costruiti con tutto il viso; a questo punto il nostro piccolo è ben sveglio e partecipa al mondo che lo circonda. Per il momento gli interessano più i volti che gli oggetti, e preferisce i visi visti di fronte alla distanza di 20-40 centimetri. Il viso più bello sarà sempre quello della mamma, colei che lo nutre e lo protegge; tra tutte le persone del mondo lei è la persona che lui conosce meglio, meglio di se stesso.

In questi primi mesi infatti il neonato non conosce ancora se stesso. Nel momento in cui imparerà a conoscere la mamma inizierà a conoscere anche se stesso; quando scoprirà che la mamma è la mamma, capirà anche chi è lui. Questo è un miracolo difficile da capire e da spiegare: attraverso la scoperta della mamma ogni bambino arriva a conoscere la propria individualità e inizia a collocarsi nel mondo come persona consapevole.

Quando un neonato è felice e sorride alla propria mamma, la mamma non sarà capace di resistere e, quasi senza accorgersene, rilancerà con un sorriso molto simile a quello ricevuto dal suo bambino; generalmente il gioco dei sorrisi prosegue per alcuni minuti e alla fine è quasi sempre impossibile ricordare chi ha cominciato. Nel sorriso della mamma il bambino vede il proprio sorriso, nel viso della mamma vede specchiato il suo; ognuno di loro sembra volersi confondere nell’altro, quasi tornando a quella relazione strettissima che hanno già vissuto durante la gravidanza.

Dobbiamo quindi considerare il sorriso dei primi mesi come il linguaggio positivo e dolce di cui dispone il neonato per comunicare (il linguaggio negativo, e a volte violento, è il pianto). Il sorriso del neonato è probabilmente anche uno dei modi privilegiati e belli che la natura è riuscita ad inventarsi per portare il cucciolo d’uomo verso la conoscenza di sé e degli altri. Proviamo pertanto a circondare i nostri neonati di molti specchi nei quali possano vedersi e riconoscersi, gli specchi dei nostri visi che non sono mai stanchi di sorridere.


Puericultura o Puericulture ?

Puericulture articoli di VocidiBimbi.itPuericultura o Puericulture ?

La puericultura dovrebbe essere la scienza che studia le modalità di cura dei bambini piccoli, in realtà essa si fonda assai poco su criteri scientifici, ma è invece fortemente influenzata da fattori culturali e sociali. Per questo non dovremmo considerare una sola puericultura giusta ed efficace, ma ritenere possibili tante puericulture quante sono le culture che influenzano le modalità con le quali ci si prende cura dei bambini.

Oggi, più di ieri, abbiamo la possibilità di sperimentare stili di vita differenti e, osservando la società multietnica che si sta configurando, abbiamo la possibilità di inventarci modalità aperte di accudimento dei piccoli. Questo non dovrebbe rappresentare un allontanamento dalle nostre radici e dalle nostre tradizioni, ma semplicemente una maniera di vivere con schemi meno rigidi e con maggiore senso critico.

Abbiamo la possibilità di costruirci un saper “meticcio” che sia in grado di sintetizzare e valorizzare gli aspetti positivi che ogni cultura possiede. Alla fine potremmo anche scoprire che il maternage africano è elaborato e artificiale quanto il nostro perchè strettamente collegato alla struttura sociale nella quale si è sviluppato.

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In Burkina Faso, durante la gravidanza, si pratica un rito che prevede di interrogare il feto per scoprire da lui il motivo della sua venuta sulla terra e per individuare il nome che dovrà portare; per loro infatti è il bambino stesso che decide di nascere e di incarnarsi in una determinata famiglia. Presso questo popolo, i fratellini vengono tenuti in una stanza attigua a quella del parto affinchè possano rispondere con la loro voce al primo vagito e far sapere così al nuovo nato di essere arrivato nel posto giusto.

In molte altre popolazioni il nome non viene scelto dai genitori, perché si ritiene che sia già posseduto dal bambino e spetti agli adulti scoprirlo attraverso l’osservazione del comportamento del piccolo; si ritiene che “il nome sia la persona” e rappresenti la sua identità.

Molti genitori mussulmani, subito dopo il parto, come rito di protezione e di accoglienza, recitano nell’orecchio del neonato la prima sura del Corano. La stessa preghiera è spesso usata come ninna-nanna.

E’ abitudine in Africa parlare e cantare al bambino mentre lo si allatta; un proverbio africano dice infatti: “il cibo senza parole riempie lo stomaco, ma non la testa”.

Presso moltissimi popoli (Marocco, Cina, Egitto, India, Mali, ecc.) la donna che ha partorito viene tenuta in quarantena; in questo periodo altre donne si prendono completamente cura di lei, affinchè lei possa prendersi cura del suo bambino.

Sarebbero 186 le popolazioni del pianeta nelle quali i bambini piccoli vivono per l’80-90 % del tempo a contatto con l’adulto; nelle società industriali invece il tempo di contatto fisico con i genitori è stato calcolato intorno al 25 %.

Nelle Filippine per proteggere il bambino gli si mette in tasca del riso; come amuleto è usato anche un pezzetto di moncone ombelicale essiccato.

In Marocco per calmare il bambino dalle coliche si usa camomilla di erba luisa o infuso di menta; lo svezzamento è iniziato con i datteri che vengono schiacciati con miele e semi di sesamo. Per il mal di pancia si usano tisane all’origano. I piccoli dormono nel letto con la mamma per almeno tutto il primo anno di vita. Sempre in Marocco a 7 giorni di vita si fa la festa del nome sacrificando un agnello; a 40 giorni invece si fa il rito del taglio dei capelli (rito di purificazione) lasciando però un piccolo ciuffo. Per proteggere il bambino si usa la mano di Fatima attaccata ai vestiti o il Corano posto vicino alla testa o sotto il cuscino. E’ tradizione vestire il neonato nei primi giorni con abiti usati dai fratelli più grandi.

In Sri Lanka si allatta almeno fino ai due anni. Il bambino viene spesso massaggiato con olio di cocco o con il latte della mamma; per le coliche si usano i semi di finocchio. A 40 giorni il bambino viene presentato alla comunità e nell’occasione gli si tagliano i primi capelli che vengono buttati nell’acqua che scorre. A 7 mesi si fa la festa del primo boccone salato.

I cinesi fanno la festa del primo mese e successivamente la festa dei primi 100 giorni (sono generalmente pranzi dove si radunano tutti i parenti).

In Perù si divezza con il tuorlo d’uovo e con una particolare banana arancione molto nutriente. Alcuni nonni non toccano i nipoti fino all’età di un mese quando vengono battezzati.

Le Egiziane seguono alla lettera il versetto 233 del Corano che prescrive l’allattamento per i primi due anni (è consentito però utilizzare una balia). Il bambino dorme generalmente nel letto dei genitori per i primi 3 anni e durante il giorno è quasi sempre in contatto con la mamma.

Non sono note popolazioni extraeuropee che usino il ciucio, ne metodi di allattamento che utilizzino orari fissi per le poppate. Le mamme berbere insegnano al bambino un controllo precoce degli sfinteri tenendolo nudo sulle proprie caviglie dondolandolo e cantando per rassicurarlo.

In Mali il bambino viene educato al controllo degli sfinteri dal momento in cui inizia a camminare; lo svezzamento invece è programmato verso i due anni di età.

In Africa occidentale generalmente i bambini dopo la nascita dormono a contatto dell’addome della mamma, in seguito si collocano a contatto della schiena della madre; crescendo dormiranno inizialmente con altre “madri” e poi con bambini della loro età. Per massaggiare e ammorbidire la pelle dei bambini in Africa occidentale viene usato il burro di karitè e l’olio di palma bruciato; in India usano l’olio di senape durante l’inverno, quello di cocco d’estate, mentre in primavera e in autunno viene impiegato l’olio di sesamo.


Sonno

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Gentilissimo dottore, 

ancora una volta ricorro a lei per un consiglio. Sono la mamma di Margherita nata lo scorso marzo. Sta andando tutto bene. Lo svezzamento procede benissimo e Margherita è una bimba molto gioiosa e autonoma. Continua, però, ad esserci un grosso problema: il dormire. Si sveglia ancora molte volte per notte.  A questo punto escludo che sia per la fame. Non è ancora capace di addormentarsi da sola. E in questo credo di non averla affatto aiutata: da quando è nata l’ho fatta addormentare attaccandola al seno e l’ho fatta dormire nel lettone. Adesso, a più di 10 mesi, si addormenta a fatica dopo averla cullata per diverso tempo e, nelle migliori delle ipotesi, dorme un paio d’ore. In sostanza si sveglia ogni due ore.

Oltre la fatica di reggere la situazione sono preoccupata per lei. Non riposa bene e a sufficienza e, anche quando ha evidentemente sonno, non riesce sempre ad addormentarsi. Non sono stata in grado di insegnarle a dormire e ora lei non è libera in questo. 

Non so bene come fare. Ho letto anche il libro Fate la nanna consigliatomi da una mia amica ma l’approccio unico che va bene per tutti non mi piace molto. Oppure altri sostengono di farla piangere sino a che non si addormenta. Anche questo non riuscirei e non vorrei praticarlo. Anche perchè, oltre alla mia incapacità di reggere il suo pianto e alla ricerca da quando è nata di accompagnarla nelle fasi della crescita con gradualità e dolcezza, Margherita è una bimba molto cocciuta, in grado di piangere per ore senza mollare, anzi…innervosendosi sempre più. Quindi rischierei di ottenere l’effetto opposto a quello desiderato. 

Come posso procedere per cercare di farla dormire nel suo letto sempre più a lungo e ad insegnarle la libertà di dormire quando vuole o ne ha bisogno? Grazie mille per i preziosi consigli che potrà darmi.

Cara mamma,

Se Margherita quando è sveglia “è una bimba molto gioiosa e autonoma”, trovo abbastanza normale che sfoghi nel sonno le sue difficoltà e le sue paure. All’età di Margherita si comincia a diventare consapevoli della propria individualità e a capire che gli altri non fanno parte di noi e che quindi possono abbandonarci; a questa età comincia lo sforzo (che durerà tutta la vita) di adattare i propri bisogni all’ambiente e alle persone che ci sono vicine, a fare i conti con i propri limiti e le proprie possibilità; Margherita ha iniziato la grande avventura (che procede per tentativi ed errori) di camminare verso la completa autonomia.

La difficoltà ad addormentarsi nasconde un’inevitabile paura a lasciare il mondo reale (quello dove la mamma e il papà si possono toccare) per abbandonarsi al mondo dei sogni (e a tutte le paure che nei sogni riescono a farla da padroni); i risvegli periodici (ad esempio ogni 2 ore) dipendono invece dalla difficoltà di passare agevolmente e autonomamente dal sonno profondo al sonno leggero (chiamato tecnicamente sonno REM, quello dei sogni) e viceversa. Se vediamo le cose dal punto di vista di Margherita probabilmente non facciamo molta fatica a capire, e quindi a giustificare, il suo “grosso problema del dormire”.

Detto questo come possiamo aiutare Margherita ad imparare a dormire? Per non imbrogliare nessuno le dico subito che né io né altri abbiamo la ricetta in tasca, e in molti casi nonostante la buona volontà e l’impegno, il problema può rimanere per tutto il secondo (e in casi rari anche il terzo) anno di vita, dopodiché la situazione generalmente migliora quasi per incanto in maniera spontanea.

Qualche suggerimento per i prossimi mesi possiamo comunque tentarlo:

  • Personalmente sconsiglio il metodo di lasciar piangere a lungo un bambino (che piangendo esprime efficacemente il proprio profondo disagio); gli faremmo soltanto sperimentare quello che lui teme di più: l’abbandono e la necessità di doversi arrangiare da solo, di dover contare soltanto su se stesso, di constatare che non c’è nessuno ad aiutarlo nella titanica impresa di crescere e vivere in questo strano mondo. Ancora più sconsigliati sono i farmaci per dormire che stanno diventando di moda anche da noi: hanno tutti un’azione diretta sul sistema nervoso (che nel primo anno di vita è ancora i corso di maturazione).
  • L’ errore principale (inevitabile nei primi mesi) è quello di continuare a fare addormentare il bambino in braccio anche dopo i primi mesi di vita; al primo risveglio (o nel passaggio al sonno REM) il bambino ricerca l’abbraccio e il contatto perduto. Dal 4-5 mese è utile iniziare a tentare l’addormentamento direttamente in culla o nel lettino, rimanendo lì vicino, parlando o cantando o leggendo, oppure accarezzando o tenendo la mano; facendo cioè qualcosa che rassicuri e che faccia sperimentare al bambino che la sua difficoltà è compresa e condivisa e che c’è comunque qualcuno disponibile ad accompagnarlo nella sua impresa. Il bambino deve cioè avere la possibilità di provare e lo stimolo per impegnarsi, ma anche la certezza che non è solo e che può fidarsi (oltre che di se stesso) anche degli altri.
  • Alla fine del primo anno e nel corso del secondo risulta molto utile usare quello che gli psicologi chiamano l’oggetto transizionale (praticamente la coperta di Linus), un bambolotto, un peluche, un feticcio, che per il bambino sia significativo e del quale possa fidarsi come di un vecchio amico.
  • Non è molto importante che il suo letto sia in camera nostra o in un’altra stanza, ma sicuramente per lui poter esserci vicino, sentire la nostra presenza, rappresenta un modo più facile per imparare a fidarsi delle proprie possibilità e per noi un modo più facile per aiutarlo. Un grande pediatra come Brazelton si chiede se la nostra cultura non sia troppo esigente quando chiede ad un bambino piccolo di imparare a dormire in una stanza tutto solo.
  • Per quanto riguarda i risvegli, la tecnica che mi sento di consigliare è quella di aspettare qualche minuto (2-3) prima di andare da lui, allo scopo di lasciargli il tempo sufficiente per provare a consolarsi in maniera autonoma e sperimentare le proprie capacità. Dopo questi pochi minuti possiamo provare a parlargli per rassicurarlo, in caso di insuccesso andiamogli pure vicino, ma tentiamo ancora di consolarlo senza prenderlo in braccio, con carezze e contatto; soltanto se è davvero disperato e inconsolabile prendiamolo in braccio. In particolare dopo il 4-5 mese, questa modalità rassicurante e graduale può aiutare il bambino ad imparare l’autonomia attraverso l’esperienza positiva delle proprie capacità.
  • Se finiamo per portarlo a letto con noi, sarebbe utile evitare che il suo risveglio avvenga nel lettone, per evitare che sperimenti e riconosca quello come il luogo del proprio sonno. Aspettiamo che sia nel sonno profondo (quando cioè ha un respiro regolare e non presenta alcun movimento) e riportiamolo nel suo letto, dove potrà svegliarsi e ritrovarsi.

Altri consigli non mi sento di poter dare, perché ogni bambino è diverso e ogni genitore ha il compito, difficile e stupendo al tempo stesso, di scoprire cosa è più utile per il proprio bambino.

Approvo molto la sua intenzione, lucida e consapevole, di accompagnare la crescita di sua figlia con “gradualità e dolcezza”; non si discosti mai da questo fondamentale proposito, anche a costo di dover tollerare alcuni “insuccessi” come questo del dormire, e non dubiti mai che voler bene e dimostrare affetto possa essere un segno di debolezza che non aiuta a crescere; molte ricerche nel campo sociologico e psicologico stanno dimostrando che i sentimenti positivi sperimentati nei primi due anni di vita stimolano la fiducia in se stessi e l’autostima, favorendo nelle età successive la capacità di relazioni positive e di comportamenti sociali.

Tanti saluti a lei e a Margherita.


I comportamenti del neonato

I comportamenti di un neonato articoli di VocidiBimbi.itI comportamenti del neonato

Cari genitori,

poiché vi lamentate continuamente di non riuscire a capire cosa voglio e cosa mi serve, provo a risolvere il problema descrivendovi i miei stati comportamentali, uguali a coloro che hanno pochi mesi di vita.

Stato 1.
E’ quello più bello per voi, ma un po’ inutile per me. In questa situazione stacco completamente la spina e mi isolo dal mondo chiudendomi in me stesso. Sono immobile con gli occhi chiusi, respiro in maniera regolare, ogni tanto faccio un respiro più profondo o un piccolo ’scatto’. Se intorno a me ci sono rumori forti io non mi accorgo di nulla. In questo stato, chiamato sonno profondo, il mio corpo si riposa, consuma poca energia e anche il mio cervello è inattivo.Nei primi mesi dalla nascita questo stato dura poco, circa 20-30 minuti, e quindi non entusiasmatevi troppo, non c’è neppure il tempo per un cortometraggio…

Stato 2.
Finito lo stato 1 passo velocemente ad un altro tipo di sonno, questa volta molto diverso. Ho le palpebre chiuse, ma sotto gli occhi si muovono (infatti questo stato si chiama sonno REM: rapid eye movement). Mi agito nel lettino, faccio dei versi con la bocca e a volte parlo. Ma soprattutto sogno! In questo tipo di sonno il mio cervello è in grande attività, rivedo quello che ho visto durante il giorno, sento gli odori e i sapori; a volte sogno di succhiare al seno, altre volte sogno di essere ancora nella pancia e cerco l’abbraccio e il massaggio del corpo della mamma. In questo stato spesso sono irrequieto e ho paura, a volte mi sveglio e vi cerco. Anche questo periodo è abbastanza veloce e l’alternanza del sonno agitato con il sonno profondo è rapida e continua. Il mio sonno è davvero molto diverso dal vostro, portate pazienza, quando sarò un po’ cresciuto saremo molto più simili.

Stato 3.
Questo momento può essere lungo o breve a secondo delle situazioni, e del mio caratterino (che però ho ereditato proprio da voi). E’ il momento del passaggio dal sonno alla veglia e viceversa, quello che voi chiamate addormentamento e risveglio. Per me è poco importante, perché io non ho ancora capito la differenza tra la realtà e il sogno, a me sembrano due cose molto simili e faccio confusione; ma anche per questo aspettate con pazienza e prima della fine dell’anno avrò le idee un po’ più chiare.

Stato 4.
In questo momento non sono soltanto sveglio, sono anche attento e concentrato. Con il vostro aiuto, ma anche con il mio impegno (un po’ di esperienza sto cominciando a farmela), riesco a passare allo stato di veglia attenta. Riesco a guardarmi intorno, ad osservare i vostri visi e gli oggetti che ci circondano. Vedo anche tutti i peli che il papà ha sulla faccia e i due vetri che la nonna ha davanti agli occhi. Sono molto attento al profumo della pelle della mamma; il sapore che esce dal suo seno si mescola al suo sorriso più dolce del latte; i suoi occhi profumano di gioia quando mi guardano e io mi sento nel posto giusto al momento giusto… Quando sono in questo stato il mio cervello inserisce dati su dati e la mia memoria si riempie di cose belle e importanti che mi fanno crescere. Questi momenti rimarranno dentro di me per il resto della vita.

Stato 5.
Il nirvana della veglia tranquilla non può durare a lungo, anzi è piuttosto breve, come tutte le cose belle e importanti. Dopo un po’ l’incantesimo si rompe e precipito nella confusione. Sono sveglio, ho gli occhi aperti, mi muovo come posso, cerco di mettere in bocca e di afferrare. Sono un po’ agitato e non riesco bene a gestire lo spazio che mi circonda, e poi ho bisogno di essere aiutato per spostarmi e per trovare la giusta posizione. Faccio fatica a osservare le cose con attenzione e tutto mi gira intorno troppo velocemente. Questa scarsa coerenza e prevedibilità mi stanca molto, ma con il vostro aiuto tutto è più facile, se tra me e il mondo ci siete voi ogni cosa diventa possibile e bella. Per questo, per ora, ho bisogno di avervi vicino, e se voi siete sereni anch’io riesco a trovare il mio speciale equilibrio.

Stato 6.
Ogni tanto dalla veglia attiva la situazione precipita; non so come, non so perché, mi trovo piangente e urlante. Vorrei davvero evitarvi questo strazio, ma è più forte di me, mi si apre tutto dentro, l’aria esce veloce dai polmoni e fa un gran fracasso. Non crediate che mi diverta, anche a me dà fastidio tutto questo. E poi consumo un sacco di energia e dopo un po’ non ho davvero più forze. Quando sono così agitato non ho più il controllo di me stesso e da questo stato non imparo proprio nulla, devo solo sperare che la tempesta duri poco e che torni il sereno, così da ricominciare a vivere davvero. Non dovete spaventarvi e disperarvi per me, però non dovete neppure starvene lì a guardarmi come due stupidi, se mi prendete in braccio e mi fate un po’ di quelle coccole che solo voi sapete fare, riusciremo a spegnere insieme la sirena e a chiacchierare tranquilli come vecchi amici.

Adesso che sapete come mi comporto dovrebbe essere più facile per voi capire cosa mi serve, aiutarmi forse sarà più facile. Io comunque imparo in fretta e se voi state bene attenti, anche se ancora non so parlare, riuscirò a insegnarvi un sacco di cose, così anche voi imparerete presto a diventare dei genitori perfetti, cioè…quasi perfetti.


Giochiamo ? – Giochiamo !

Giochiamo articoli di VocidiBimbi.it

Giochiamo ? – Giochiamo !

Come è possibile giocare con un bambino di due settimane che non parla, non salta e non sa ancora ne afferrare ne lanciare ? Ma soprattutto è importante il gioco nelle prime settimane di vita ?

Per riuscire a trovare delle risposte a queste domande dobbiamo prima decidere cosa intendiamo per gioco, o meglio, cosa è il gioco per un bambino. Se non riusciamo a tornare con la mente ai nostri primi anni di vita, possiamo però osservare con attenzione un gruppo di bambini piccoli giocare e scopriremo che per loro il gioco non è un passatempo né una maniera di distrarsi o riposarsi; per loro il gioco è una forma di lavoro, è l’attività primaria della loro vita attuale, è l’unica maniera che conoscono per esprimersi e per comunicare.

I cuccioli di mammiferi giocano tra di loro per imparare a difendersi e a cacciare, intanto si divertono e sviluppano la muscolatura; i nostri cuccioli, attraverso il gioco, sviluppano la loro complessa struttura mentale e imparano a utilizzare le diverse potenzialità dell’organismo.

Nel primo anno di vita il gioco permette di sviluppare in maniera armonica il sistema psicomotorio:  collegare gli occhi con le mani, conoscere le forme, il pieno e il vuoto, il dentro e il fuori, il sopra e il sotto, il prima e il dopo, e ancora molte altre cose. Il gioco già nelle prime settimane di vita permette al cervello di organizzare collegamenti cellulari e creare elaborati programmi mentali; probabilmente senza il gioco saremmo meno intelligenti della più stupida tra le scimmie.

E’ il gioco quindi il vero alimento della mente, il cibo è soltanto il carburante per produrre l’energia per giocare (nei bambini serve anche per aumentare il volume dell’organismo). In questo senso il gioco è molto più importante del cibo e probabilmente senza il gioco nessun bambino sarebbe disposto a cibarsi e quindi a vivere. Se il nostro sviluppo mentale (e con lui l’identità e la personalità) si organizza e si struttura nel primo anno di vita, significa che per giocare non bisogna aspettare di saper tirare calci ad una palla.

Veniamo quindi alla prima domanda “come giocare con lui fin dai primi giorni di vita ?”. E’ facilissimo, basta provare ad essere un po’ come lui, e siccome lui confonde se stesso con la mamma, dobbiamo provare a confonderci un po’ con lui.

Dobbiamo riuscire ad accettare di essere noi il suo gioco. Il seno della mamma, i suoi occhi, il suo odore, le sue dita, il suo calore, sono il gioco dei primi giorni; stare in braccio o essere massaggiati è il primo gioco che lo porta a conoscere la mamma e attraverso di lei iniziare a conoscere se stesso. Dal secondo mese il gioco sarà osservare ed esplorare, ma mai da solo, sempre in braccio, perché ancora non può sapere che il braccio è della mamma. Verso i quattro mesi il gioco diventa interessante, perché quanto si è scoperto con gli occhi diventa accessibile alle mani (e alla bocca); anche il viso della mamma o del papà è un bel gioco in movimento che fa smorfie e rumori e che si può anche toccare.

Se questo per lui è un gioco, anche per noi deve essere puro divertimento che riesce a farci dimenticare non soltanto il lavoro e gli impegni, ma anche chi siamo; in quel momento dobbiamo essere come lui e vivere il qui-adesso-tra-di-noi. E’ giocando con lui che riusciamo a vivere le sue emozioni, a conoscerlo e a farci conoscere; giocando riusciamo ad avere fiducia in noi come genitori e in lui come figlio, mentre lui impara ad avere fiducia in se stesso e quindi in noi. Capiremo di amarci con grande facilità e creatività.

Dal sesto mese viene il bello, perché lui ormai sta abbastanza dritto, afferra e lancia e risponde ai nostri versi con urletti da matto. E’ molto divertente usare giocattoli improvvisati, come i cucchiai di plastica, gli anelli delle tende, i rocchetti di legno, i fiocchi dei pacchi, le scatolette riempite di palline e tutto quello che riesce a fare un po’ di baccano.

Per tutto il secondo semestre di vita i posti migliori per giocare sono i prati o, se piove, un tappetone di gommapiuma (ricoperto di stoffa o similpelle) in un angolo della sua camera. Sul tappetone si può giocare anche senza giochi semplicemente usando il nostro corpo per rotolarsi insieme, fare capriole, tunnel, ecc.; ma anche con i giocattoli il tappetone diventa il posto più bello della casa dove, dopo il lavoro, bisognerebbe che anche noi ci precipitassimo…

Ma se il tempo è bello non dobbiamo dimenticare che siamo anche noi dei mammiferi e che non siamo stati programmati per vivere chiusi in gabbia; tutti i giochi che si riescono a fare fuori diventano belli il doppio e all’aperto si riesce a giocare più rilassati e senza mai stancarsi.

Dopo i primi mesi è utile che la mamma e il papà non facciano i turni per giocare, ma che ogni tanto giochino entrambi con lui, così lui imparerà a conoscerli meglio e loro impareranno a conoscersi reciprocamente nel nuovo ruolo di genitori giocosi.

Se lasciamo che per una volta sia nostro figlio a insegnarci qualcosa, potremo (ri)scoprire che non si viene al mondo per lavorare, ma per giocare, e che tutta la vita è un grande gioco.