Nascere prematuri
Valentina ormai è in prima media e vorrebbe andare a scuola da sola come molte sue amiche. La mamma però preferisce continuare ad accompagnarla; ha paura che ancora non riesca a gestire gli imprevisti, e poi la sua bambina è nata in anticipo e quindi rispetto alle amiche è meglio che attenda ancora un po’. Valentina è nata alla 28° settimana di gestazione con un peso di 1100 grammi. La mamma ricorda come fosse ieri il giorno in cui la pancia è diventata dura e poi sono partite le forti contrazioni. Il seguito è come un film: il tracciato, la faccia preoccupata del medico, la successiva difficile spiegazione, la sua mente confusa, l’anestesista con le sue strane domande, poi la luce accecante della sala operatoria…in questa sequenza veloce e spezzata rimane incisa, come un fiore su un muro di pietra, il pianto flebile di Valentina e la sua pelle rossa e pulsante. Dopo il cesareo c’è stato il silenzio e la solitudine della pancia vuota; un attimo prima erano una cosa sola, ma ora Valentina è sparita in un altro mondo. E’ ancora dolce il ricordo del papà che corre da un piano all’altro: dopo aver ricevuto notizie della piccola si precipita dalla moglie per raccontare e per consolare. Tutto questo era già capitato a due loro amici, ma non immaginavano che la stessa esperienza avrebbe colpito anche loro.
E adesso che fare? I pensieri volano in alto e lontano. Se Valentina sopravvive come sarà? Potrà laurearsi, sposarsi e avere a sua volta dei figli? E la loro vita di genitori come sarà? Bisogna cancellare tutti i progetti e i sogni, o qualcosa è possibile conservare? Queste domande non hanno risposta, anche perché non vengono formulate e rimangono nascoste dentro ( e ogni tanto affiorano nel viso e nello sguardo).
I due giorni passati in ostetricia sono molto difficili, la vita è come sospesa, il dolore del cesareo non viene giustificato da un visetto che ti guarda e che ti succhia. La paura è che per troppa bontà non ti dicano la verità sulle condizioni di Valentina, e poi ogni parente cercando di consolare fornisce la propria versione della situazione e si lancia in pronostici fantasiosi.
Il terzo giorno è un grande momento, in carrozzella la mamma riesce a recarsi in reparto per conoscere la sua bambina. Ma l’incontro è una tempesta di emozioni contrastanti, la situazione è incomprensibile e confusa. Valentina è un bambolotto nudo; al posto dei vestitini ci sono fili e tubicini, sensori e cerotti, solo il minuscolo pannolino permette di ricordare che quello è un mondo per bambini. Durante la visita le parole delicate dell’infermiera si mescolano a quelle difficili del medico, assieme al suono dei monitor e degli allarmi (che il personale sembra neppure sentire) si sente il richiamo di qualcuno che annuncia l’andata in mensa o di un altro che non ha capito se lo sciopero è revocato… ma in tutto questo Valentina dov’è? Cosa fa? Cosa pensa?
Al ritorno dalla visita la delusione è profonda, la mamma era andata per conoscere la sua bambina ma si rende conto che Valentina per lei è più sconosciuta di prima. I giorni successivi vanno meglio, guardandosi intorno si vedono tante altre Valentine e tanti altri genitori come lei. Una mamma, già lì da due mesi, appare particolarmente tranquilla e fiduciosa; racconta di come sono bravi i medici e sensibili le infermiere, e questo incoraggia e alimenta la speranza.
Valentina supera la fase acuta dell’immaturità polmonare, inizia anche un’infezione che per fortuna viene bloccata sul nascere, comincia e interrompe più volte l’alimentazione con il sondino, ma alla fine riesce a tollerare i pasti; per alcune settimane deve rimanere in incubatrice con un po’ di ossigeno, mantenendo la flebo con tutte le sue pompe attaccate. Una sera i genitori di Valentina sono accolti dal responso funesto di una ecografia cerebrale che ha mostrato un sanguinamento, ma nessuno è in grado di spiegare con precisione quali conseguenze questo potrà provocare; un medico parla di un rischio del 60% ma non è in grado di dire se Valentina appartiene al gruppo che svilupperà danni o a quello che ne uscirà bene. E’ in questo periodo che la mamma di Valentina non riesce più a spremersi il latte come prima: proprio adesso che la bambina mangia più latte, lei ne produce di meno.
Un giorno la mamma quasi sviene nel vedere Valentina fuori dall’incubatrice, nessuna l’aveva preparata a questo evento e lei non sa come comportarsi; fino ad ora aveva sempre toccato e accarezzato la bambina tenendo le mani dentro l’incubatrice, adesso invece ha la possibilità di tenerla in braccio, ma alla proposta dell’infermiera rifiuta, ha paura di non essere capace, di fare male, di trasmettere infezioni,….Qualche infermiera definisce questo rifiuto un segno di scarsa affettività o di iniziale depressione. Invece il giorno successivo il loro incontro riesce benissimo, si guardano e si abbracciano. Valentina è accoccolata tra i seni della mamma, ha gli occhi chiusi, è concentrata per non perdere nulla di quello splendido momento; tutti i loro sensi sono attivi per riuscire ad assorbire il più possibile l’una dell’altra. A distanza di alcuni mesi la mamma capisce che è stato in quel momento che per lei Valentina è nata; quel giorno finalmente l’ha conosciuta e da quel giorno non ha più smesso di amarla.
Negli anni successivi la mamma rinuncia al lavoro per seguire la bambina, prima per i vari controlli di follow-up e poi per favorire le diverse tappe di crescita. Per lei Valentina rimane sempre un po’ più debole degli altri bambini, ogni problema viene collegato a quella nascita intempestiva, ogni scelta è condizionata dall’esperienza di quei mesi. La mamma continua a sentirsi un po’ inadeguata, come in quei giorni quando Valentina era curata dalle mani esperte delle infermiere; quella paura di sbagliare e di non farcela è rimasta, rendendo più difficili le numerose sfide del diventare grandi.
In realtà Valentina già dal secondo anno di vita si è comportata come qualunque altra bambina della sua età, presentando le normali infezioni e crescendo con lentezza ma regolarmente, mangiando poco, ma manifestando l’energia necessaria e sufficiente. Neurologicamente non ha sviluppato alcun problema, soltanto molta vivacità e un po’ di difficoltà nel concentrarsi a lungo.
Ora che è arrivata alle medie cerca di spiccare il volo, tentando di separarsi un po’ dalla mamma che invece resiste per eccesso d’amore. Non è difficile immedesimarsi in questa mamma che dopo aver tanto sofferto per la prima nascita di Valentina, adesso è restia a lasciarla nascere un’altra volta.
Valentina è sopravissuta senza esiti alla nascita pretermine, e questo è senz’altro l’effetto del progresso scientifico e della tecnologia; ma a questo punto possiamo chiederci quali concreti strumenti sono oggi disponibili per favorire il benessere di un prematuro e dei suoi genitori.
Provo a descrivere le due pratiche che, a mio avviso, sono oggi le più importanti, perchè basate su evidenza scientifica e applicabili in qualunque contesto indipendentemente dalle risorse disponibili: la prima si chiama KMC, la seconda NIDCAP. Per chi non ama le sigle, si tratta della Kangaroo Mother Care e della Newborn Individualized Developmental Care and Assessment Program.
KMC può essere tradotto in italiano in ‘assistenza con il metodo marsupio’. Si tratta di una pratica assistenziale adottata oltre vent’anni orsono in Colombia che utilizza il contatto pelle-pelle tra i genitori e il neonato, con tempi e modalità variabili in base alle condizioni cliniche del bambino e alla disponibilità dei genitori (ma è necessaria anche la disponibilità di medici e infermieri).
Il metodo è applicabile ad ogni pretermine stabile (principalmente dal punto di vista respiratorio), indipendentemente dal peso e dall’età gestazionale.
Sono numerosi gli studi che mostrano la fattibilità di questa pratica, l’assenza di rischi (soprattutto di quelli infettivi) e i benefici per la mamma e il bambino. In particolare sono documentati i vantaggi nei confronti dell’allattamento al seno, della crescita del neonato e della sua stabilizzazione termica; rimangono da definire meglio gli effetti metabolici a breve termine e quelli neurologici a lungo termine. Sono documentati i benefici nei confronti del processo di attaccamento, anche se gli effetti psicologici e relazionali sui genitori e sul neonato richiedono ulteriori approfondimenti. Questa modalità assistenziale è senz’altro in grado di contribuire fortemente all’umanizzazione delle cure, sia nei paesi a basso reddito che in quelli ricchi.
Attraverso questa pratica (indipendentemente dalla modalità di utilizzo, in forma continua o intermittente) la mamma di Valentina avrebbe partecipato maggiormente alle cure della sua bambina, limitando la delega al personale e attivando proprie risorse fisiche ed emotive. Un contatto quotidiano madre-figlia avrebbe favorito la loro conoscenza e migliorato l’equilibrio del loro rapporto; forse ansia, insicurezza e impotenza materne avrebbero potuto essere contenute, forse questa mamma avrebbe imparato presto a fidarsi delle grandi risorse e competenze della figlia.
La KMC è stata descritta dettagliatamente da una linea guida del WHO che ne ha definito le basi scientifiche (ricordiamo che a questo documento hanno collaborato Adriano Cattaneo e Riccardo Davanzo); sulla KMC la letteratura è ormai tanto ampia da aver già prodotto alcune revisioni sistematiche. Nel 2006 la Società Italiana di Neonatologia ha pubblicato e diffuso la linea guida della KMC promuovendone l’applicazione nelle UTIN del nostro paese (auspicandone l’inclusione nei curricula formativi di base). L’adozione di questa modalità assistenziale è però ancora poco uniforme e la sua applicazione non costante, dimostrando quanto è difficile modificare le tradizionali prassi di cura. L’aspetto interessante della KMC è la sua assenza di costi sia in denaro che in tempo: il personale anziché occuparsi di un neonato in incubatrice interviene su un bambino in braccio alla mamma.
Ricordiamo che la KMC può essere praticata tranquillamente anche dai papà, soprattutto nelle situazioni nelle quali la madre è impedita o non disponibile.
Per visionare la linea guida e approfondire gli aspetti tecnici si rimanda all’indirizzo:http://www.mami.org/Docs/raccomandazioni/ACTA1_02_KANGAROO.pdf
La NIDCAP è una pratica più complessa della MKC perché necessita di personale specificatamente formato e addestrato alla sua applicazione. Non si tratta di una semplice pratica assistenziale, ma di “un programma personalizzato di sostegno ambientale e di assistenza allo sviluppo, basato sulla lettura dei segnali comportamentali di ciascun neonato pretermine”; l’obiettivo finale è “la formulazione di un piano di cura atto ad accrescere e promuovere le potenzialità del neonato e a sostenerlo nelle aree di sensibilità o vulnerabilità”. La NIDCAP nasce un paio di decenni orsono a Boston dal lavoro di Heidelise Als, psicologa e allieva di Berry Brazelton. Nel corso degli anni gli studi e le evidenze scientifiche sulla utilità e sulla efficacia di questo approccio al neonato sono aumentate e si sono consolidate.
I benefici a carico del neonato riguardano la funzionalità polmonare (con riduzione dei tempi di ventilazione e di ossigenodipendenza), la crescita e il comportamento alimentare, la riduzione del periodo di degenza; ancora più interessante è risultato il miglioramento neurocomportamentale e il livello di maturazione delle strutture neurologiche (documentato anche in maniera strumentale tramite EEG e RMN). I benefici sono stati valutati fino all’età di sei anni, con vantaggi nei confronti del linguaggio e delle altre attività cognitive.
Effetti positivi sono stati misurati anche sui genitori, che mostrano maggiori competenze e minori livelli di stress, e sul personale di assistenza, in particolare le infermiere che appaiono più abili nel valutare il neonato e adattare in maniera mirata le cure. E’ rilevante segnalare che, come nel caso della KMC, anche questa pratica assistenziale non si accompagna ad alcun effetto negativo.
Per i dettagli pratici si rimanda alle pubblicazioni specifiche, mi interessa però evidenziare che la NIDCAP promuove una visione dell’ambiente di cura partendo dalla prospettiva dell’esperienza del neonato e mette al centro del processo assistenziale i genitori (considerati i principali co-regolatori dello sviluppo del bambino). In definitiva la proposta è quella di passare da un pratica basata su protocolli standard ad una assistenza personalizzata che minimizzi i fattori di stress e favorisca l’autoregolazione del neonato durante la relazione con l’ambiente e il caregiver. Questo approccio parte dalle competenze neurovegetative, motorie e di stato del neonato, attraverso l’osservazione fine del comportamento spontaneo durante le interazioni; in quest’ottica il neonato prematuro viene considerato un individuo complesso, attivo e reattivo agli stimoli sociali e sensoriali.
Questa modalità assistenziale richiede agli operatori intuito e sensibilità, capacità di relazione e di riflessione, impegno a non sostituirsi al genitore; per questo è necessario un percorso formativo lungo e articolato, con supervisione e tutoraggio almeno nelle fasi iniziali del processo.
Dal 2005 il gruppo di studio per la ‘Care neonatale’ della Società Italiana di Neonatologia ha iniziato l’approfondimento della NIDCAP, promuovendola e sviluppandola in alcune importanti UTIN nazionali; la speranza è che anche questa esperienza, come la KMC, possa diffondersi e consolidarsi trasformandosi in prassi assistenziale in tutti i centri di cura neonatali del nostro paese.
Le recenti ricerche neurobiologiche mostrano una grande attivazione dell’encefalo del neonato, che velocemente si struttura in base agli stimoli sensoriali sperimentati; questo momento della vita si sta dimostrando strettamente collegato alle caratteristiche del periodo successivo, fino a condizionare l’età adulta. E’ nostra opinione che in passato sia stata sottovalutata l’importanza del benessere e dell’equilibrio comportamentale del neonato pretermine. E’ giunto il momento di camminare con decisione sulla strada che alla tecnologia sa unire sensibilità, relazione e sussidiarietà.
Il presente articolo è stato pubblicato sulla rivista per ostetriche ‘Donna & Donna’ n.64, marzo 2009