Primi passi nell’esercizio della genitorialità di Elisabetta Musi
L’opportunità di garantirsi, come coppia, un tempo quieto e il più possibile incondizionato, in cui ascoltare, osservare, registrare le sfocature date dal cambiamento in atto, consente di dipanare pazientemente il groviglio di vissuti e abbozzare insieme le prime pratiche di cura per la crescita del figlio. Può consentire addirittura di ripercorrere i passaggi cruciali dell’esperienza compiuta scorgendovi le prime tracce di insegnamenti e apprendimenti da mettere in atto nella relazione educativa verso di sé come genitori e verso il figlio.
Ad esempio la segretezza che avvolge il concepimento insegna a farsi custodi di quanto non può essere totalmente riversato sul figlio. Quanta apprensione si impadronisce di una famiglia lungo il percorso di crescita di un bambino, di un adolescente, di un giovane. E tuttavia compito dei genitori è imparare a tenere timori e preoccupazioni per sé, per evitare di trasmettere insicurezza e sfiducia, comunicando solo ciò che serve per dare vita a un atteggiamento di prudenza e ponderatezza nell’affrontare la vita.
Un’altra sapienza pedagogica che questo primo silenzio pieno porta con sé è l’avvertenza che nel rapporto col figlio, molta parte di quanto accade sfugge al controllo, ad ogni pretesa di prevedibilità e di pianificazione. Per quanto l’agire educativo di un genitore non possa che essere intenzionale, mosso da un fine, teso a perseguire un risultato visibile e verificabile nel comportamento del figlio, non esiste una correlazione governabile tra “la semina e il raccolto”, almeno non rigorosamente secondo i modi auspicati e attesi dal genitore.
Restando nella suggestione della metafora: sebbene una buona semina consegua nella maggior parte dei casi un buon raccolto, è solo un atteggiamento di umile attesa e luminosa speranza che sostiene e attraversa il tempo incerto e buio precedente la visione appagante dei frutti. La convinzione di aver seminato bene non porta ad un raccolto nei modi in cui lo si immagina e desidera. Per questo non resta che la speranza.
Mal posta è dunque la pretesa di chi stabilisce un nesso di matematica consequenzialità tra quanto immette nella relazione educativa e ciò che si attende di constatare in seguito: in realtà la riuscita di una relazione educativa è sempre avvolta da quell’imponderabile (e indecifrabile, destinato a rimanere quindi segreto) che mantiene umili le parti, mette al riparo l’evento da facili manipolazioni e impedisce all’educazione di essere ridotta a ricette riproducibili e di immediato consumo.
La pazienza che contraddistingue l’attesa deve continuare a caratterizzare lo stile educativo genitoriale ben oltre l’infanzia del figlio, per consentire a quest’ultimo scoperte proprie e tollerabili frustrazioni, senza diventare accondiscendenza acritica, giustificazione aprioristica e assenza di regole.
La pazienza sa transigere senza eccedere, sa perdonare per riaprire canali di comprensione, sa attendere senza sospendere l’espansione d’amore. Implica la disponibilità di andare incontro all’altro là dove si trova, concedendogli nuove opportunità di cambiamento. È dunque anzitutto esercizio perseverante di ammorbidimento di sé, più che ostentata bonarietà verso l’altro.
Prima di essere virtù a beneficio degli altri, infatti, la pazienza deve essere coltivata per sé, per essere fonte generosa di umanità nella relazione, incessante ricerca nell’imparare ad amare l’altro per quello che è, non per ciò che si desidera, si era immaginato, sognato che fosse.
S. Ruddick ne Il pensiero materno , tutte le madri del mondo sono madri adottive, poiché completano il lavoro del dare alla vita, accogliendo il figlio che nasce, e poi l’adolescente, il giovane… la persona che diventa. Questo vale anche per i padri: avere pazienza con sé stessi è accogliere la differenza del figlio, il suo diritto a scelte via via più autonome e forse distanti, incomprensibili, senza per questo sentirsi rinnegati o traditi. È continuare ad alimentare la fiducia nel figlio non in virtù di quello che fa e dei riscontri che dà, ma di ciò che è e che sempre più autonomamente diviene.
Le trasformazioni di cui il corpo materno è sintesi e icona, annunciano che il cambiamento è vita.
Uno dei passaggi più evidenti e spesso più critici che precede la nascita è la plasticità di un corpo che generosamente si allarga fino a perdere, spesso, molta parte dell’originaria sembianza. La pesante sensazione – di goffaggine nella percezione di sé e di impaccio nei movimenti – che vive il corpo materno nel suo repentino modificarsi, è controbilanciata dalla più potente consapevolezza di essere impegnato in qualcosa di grande. E’ possibile scorgervi un’armonia che non è quella dell’estetica imperante, ma che proviene dal guardare l’apparenza cogliendovi altro, dall’intuire una porzione di universo che progressivamente prende forma e occupa spazio sotto la pelle tesa.
Allo stesso modo la relazione educativa è esperienza di continua scoperta di armonie ricercate, non immediatamente evidenti. Saper leggere oltre le apparenti distorsioni, contraddizioni, ambivalenze della realtà è un’arte che si conquista nel tempo, attraverso un esercizio senza posa e che si annuncia già dal concepimento come un compito da assumere.
I saperi che permettono di scorgere quanto accade oltre l’apparenza non si apprendono attraverso la trasmissione di contenuti proposti da altri, ma elaborati a partire da sé. Il guadagno legato a questa dedizione è la capacità di sintonizzarsi e percepire la progressiva espansione dell’Io che avviene nel profondo della propria interiorità e soprattutto nel contemporaneo divenire dell’altro.
È un percorso che porta a un progressivo ampliamento dei propri confini, che può subire arresti e regressioni ma non vuoti di esistenza. Istruire lo sguardo a cogliere la bellezza di un corpo che si trasforma – a volte persino in modo irreversibile, ma che proprio in quell’irreversibilità fissa la memoria di un evento grandioso – è immettersi in quella pedagogia della bellezza che nasce dalla capacità di attribuire significati da coltivare, piuttosto che omologarsi ai canoni di un bello predefinito, anonimo e universale, in cui tutte le personalizzazioni della ricerca alla fine si spengono e vanno a morire.
La fecondità del sacrificio che scandisce il patire del travaglio e del parto insegna che ogni conquista non è mai esente da piccole grandi rinunce e fatiche, insegna che dopo aver dato la vita è necessario iniziare a farsi lentamente da parte affinché il figlio possa trovare gradualmente il suo spazio. L’amore autentico non si risparmia davanti alla fatica e al sacrificio, ha una forza propria capace di trasformare, e ogni trasformazione è sempre un po’ dolorosa.
Ritrarsi progressivamente dalla vita del figlio è sottrarsi alla tentazione che questi sia inteso come la proiezione del genitore (cosa che costringe il figlio ad assumere il desiderio dell’altro, del padre o della madre, non il proprio). Ciò che contrasta questa tentazione è la «tensione etica del decentramento». Si tratta di una condizione «che si sperimenta tante volte nella maternità: rispondere alla chiamata del pianto, rispondere al bisogno, rispondere al desiderio…, rispondere vuol dire decentrarsi, vuol dire mettersi in cammino. In questo decentramento c’è l’anima vera della responsabilità-genitorialità e c’è il momento che fa della genitorialità autentica un seme di profezia (…). La responsabilità, che è funzione del potere, converte questo potere liberandolo dal possesso e facendolo divenire servizio».
Nel sostenersi reciprocamente in questo compito, i genitori attuano il momento fondamentale dell’educare, che consiste nel portare continuamente alla luce. Esattamente come avviene per la madre durante il travaglio e il parto, l’agire educativo si esplica nel doppio movimento di accompagnare e lasciare andare. Mettere al mondo un figlio significa sostenerlo nei suoi passi incerti, ma anche arrivare a lasciargli la mano affinché possa sperimentare la propria autonomia, significa accompagnarlo sulla soglia delle esperienze sapendo che gli apprendimenti della vita avvengono solo per via diretta, significa adoperarsi a tal punto per la sua crescita e il suo nutrimento da offrirsi come alimento, per poi ritirarsi e svezzarlo.
E proprio il darsi in nutrimento al figlio nell’allattamento rappresenta per i genitori il primo emblematico esempio di come il dono di sé dia origine ad uno scambio vitale – di sguardi, complicità, gratificazioni, sorrisi… già presenti nell’allattamento – che trova nella comunicazione la sua continuità educativa. Mantenere aperto il dialogo e il confronto, l’accoglienza non giudicante e l’ascolto reciproco nella relazione educativa fa sì che i genitori si confermino quale fonte di nutrimento emotivo e simbolico nello sviluppo successivo del figlio, attivi promotori di un’interazione che cresce e che, pur nel modificarsi delle parti, ha la possibilità di continuare a realizzarsi per tutta la vita.
Tratto dal capitolo 9 di ‘Concepire la nascita. L’esperienza generativa in prospettiva pedagogica’
di Elisabetta Musi, 2007 Franco Angeli -Per gentile concessione dell’autore.
Lascia un commento