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Esogestazione

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Esogestazione di L. Braibanti

Il feto-bambino è un essere ‘ambiguo’, insituabile: prima e dopo il parto non si ha più a che fare con la medesima ‘cosa’, ma non si tratta ovviamente di una ‘cosa’ che abbia perduto la propria unicità e continuità. Questo paradosso è confermato dal fatto che non abbiamo nomi generali per indicare la totalità della vita, dentro e fuori dall’utero materno. Ciò si spiega forse con il disagio delle culture di fronte ad una così radicale frantumazione dell’esistenza che solo la morte sembra pareggiare.

 Ma proprio per la nascita e il suo trauma inducono a una attenzione significativa verso questo essere vivente e i suoi bisogni. Non solo va tutelato nel suo diritto alla vita, ma gli va riservata tutta l’attenzione e l’amore che lo portino a superare l’esperienza totale di solitudine, angoscia e dolore.

Il feto-neonato è protagonista di una vicenda in cui predomina il senso di abbandono e di lacerazione dell’esistenza, che può lasciare a lungo segni profondi e che non può essere sottovalutata solo per il fatto che egli non sa esprimersi in modi riconoscibili. Il dolore del feto-neonato non può essere raccontato e quindi semplicemente lo si nega. Tuttavia l’operatore deve riuscire a rappresentarsi questa lacerazione profonda, a riscoprirla nel proprio intimo, costruendo su di essa un rapporto empatico ed affettivo assai intenso.

Ma soprattutto deve fare in modo che chi nella situazione è più ‘esperto’, cioè la madre, possa esercitare nei confronti del piccolo un’azione di riparazione affettiva, ripristinando e restaurando con altri mezzi il legame che la nascita ha così traumaticamente turbato.

Esaurita la gestazione endouterina, il neonato umano si trova in una condizione alquanto diversa rispetto a quella della maggior parte degli animali, in parte assimilabile alle specie nidicole con prole inetta. Nei gradini della scala zoologica più prossima alla specie umana i piccoli presentano alla nascita un grado maggiore di autonomia e, conseguentemente, minore necessità di cure parentali. Il neonato umano invece si trova in uno stato di relativa impotenza e, come sostiene Hartmann, la ridotta gamma degli istinti lo costringe ad una dipendenza pressochè totale nei confronti dei genitori e, in generale, dell’ambiente circostante.

Questo stato evolutivo è messo in relazione, da parte degli antropologi, al peculiare sviluppo del sistema nervoso centrale e al conseguente ingrossamento della capacità cranica. La selezione naturale avrebbe via via favorito la nascita di piccoli ‘prematuri’, con una dimensione della testa e uno sviluppo cerebrale incompleto, rispetto a piccoli più maturi ma che avrebbero potuto essere partoriti solo con gravi difficoltà, a causa dell’abnorme grandezza cranica rispetto a quella del canale del parto. Da ciò deriverebbe il fatto che una parte significativa di ciò che poteva considerarsi l’accrescimento endouterino si trova invece ad avvenire dopo la nascita, restando il bambino nelle prime settimane in gran parte disadattato alla sopravvivenza sia sotto il profilo dell’adattamento motorio sia dal punto di vista dell’adattamento cognitivo e sociale.

Questa ipotesi giustifica la considerazione dei primi mesi di vita come periodo di ‘esogestazione’, di completamento esterno della gestazione endouterina. Tale interpretazione è sostenuta anche dalla comparazione del rapporto gestazione/accrescimento nelle varie specie, che nell’uomo tocca un livello estremamente basso. Ciò nonostante non si deve enfatizzare eccessivamente il carattere passivo e impotente della presenza del neonato nella scena delle prime relazioni sociali.

A partire dagli anni Settanta si è affermata una posizione più pertinente che, senza mettere in discussione l’indispensabilità per il neonato di un ambiente sociale ricco e di cure parentali adeguate, ha peraltro messo in luce una competenza precoce del bambino rispetto a quello stesso ambiente sociale e alle cure parentali, che ne fanno un protagonista attivo, in grado di indirizzare il corso dell’interazione con gli adulti e, in parte, di anticiparlo intenzionalmente. Il neonato, insomma, non sarebbe affatto privo di proprie strategie di adattamento ma, piuttosto, queste strategie sarebbero specializzate per il contesto sociale entro cui la specie ha ‘scelto’ di collocare l’esperienza delle prime fasi di sviluppo.

(…) Più in generale, la tendenza a considerare e a giudicare separatamente madre e bambino, al di fuori del contesto relazionale, conduce ad una serie impressionante di errori, sia sul piano teorico che su quello pratico, errori fortunatamente superabili proprio per la forza che l’equilibrio dinamico della relazione esercita sullo sviluppo di entrambi. Né va sottovalutato il fatto che i primi mesi di vita rappresentano, come già gravidanza e parto, un momento di sviluppo della personalità materna, sviluppo che va posto in continuità con le fasi precedenti, ma sul quale esercita ora una potente azione il bambino come agente della socializzazione materna.

Anche in questo senso si può dire che il bambino ‘costruisce’ l’ambiente del proprio sviluppo, mentre l’ambiente contribuisce a favorirne la crescita. L’intercambiabilità dei ruoli materno e infantile quali agenti-oggetto di socializzazione è una caratteristica estremamente importante dell’evoluzione della nostra specie. Qui torniamo allora alla considerazione unitaria della gestazione, del parto, dell’esogestazione, evento di estrema rilevanza nella vita della persona, al quale occorre attribuire un’attenzione non divisa, ma costantemente focalizzata su ciò che avviene ‘dentro’ i protagonisti diretti.

 Contemporaneamente si lasci ad essi spazio per vivere questa esperienza da protagonisti nella pienezza dell’esistenza, cercando di rimuovere gli ostacoli che si frappongono fra l’individuo, il suo ambiente sociale e questa fondamentale esigenza.

Tratto da “Parto e nascita senza violenza”

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