L’allattamento nei mammiferi di Susan Allport
Il latte che tutti i mammiferi danno ai loro piccoli è sempre composto da acqua, grassi, proteine, zucchero, piccole quantità di minerali vari, vitamine e ormoni. Le proporzioni di tali ingredienti variano moltissimo da specie a specie. Il latte di pecora, ad esempio, è 80 % di acqua, 9 % di grassi e 5 % proteine; il latte della grande balena azzurra è 50 % acqua, 30 % grassi e 12 % proteine. Com’è naturale, il latte più favorevole al neonato è quello della specie di appartenenza. I biologi, questo, lo hanno sempre saputo, ma non hanno mai sospettato che vi fosse una relazione tra composizione del latte e stile di accudimento, finchè Devorah Ben Shaul, una biologa israeliana che negli anni Cinquanta e Sessanta lavorava allo Zoo Biblico di Gerusalemme, cominciò a riflettere su alcune cose che andava scoprendo.
Cominciò a interessarsi del latte e della sua composizione perché, dovendo spesso nutrire manualmente degli animali selvatici, voleva trovare assolutamente il modo di simulare quanto più possibile la dieta normale che il piccolo avrebbe avuto allo stato libero. Per fare ciò, aveva bisogno di sapere quale fosse esattamente questa dieta. Così, prese a raccogliere e ad analizzare campioni di latte prodotto da centinaia di animali selvatici: balene gibbose, cammelli arabi, ippopotami, topiragno d’acqua, bufalo d’acqua, un formichiere aculeato morto; praticamente tutti quelli che riusciva ad avere.
“Mi aspettavo, naturalmente, che si potessero fare correlazioni importanti sulla base della parentela della specie”, scrisse la Ben Shaul nel suo innovativo articolo comparso sull’”International Zoo Yearbook” nel 1962, “invece scoprii presto che non era così. Mi trovai di fronte a dei risultati apparentemente irrazionali, come il fatto che un orso grizzly e un canguro avevano un latte dalla composizione quasi uguale, o, per fare un altro esempio, che il latte della renna era simile a quello del leone.”
Non è improbabile che molti ricercatori abbiano ritenuto di dover mettere in un cassetto queste scoperte, ritenendole inconsistenti o frutto di un tecnico incompetente, ma la Ben Shaul non mollò. Via via che accumulava altri campioni e dati, cominciò ad individuare l’esistenza di un modello, ovvero una connessione fra composizione del latte di un animale e comportamento da esso tenuto nell’allattamento. Pensò che, forse, c’era un motivo logico se il latte di un grizzly e quello di un canguro erano simili, visto che in entrambe le specie le madri stavano costantemente col piccolo, e questo può alimentarsi in qualsiasi momento. Se raffrontato con quello di altri animali, il latte di questi due animali è molto diluito. Consiste di circa l’88,9 % di acqua, il 3 % di grassi e il 3,8 % di proteine.
Cani, gatti e roditori, invece, producono tutti un latte più concentrato e di più alto contenuto di grassi. Ma questi animali lasciano i piccoli ogni volta per ore, così si spiegava anche questo fatto. I grassi, dopotutto, posseggono i più alti valori nutritivi di ogni alimento. Capre, pecore e primati, i cui piccoli, costantemente, sono al seguito o vengono portati dalle madri, producono al pari dei grizzly e dei canguri, un latte relativamente diluito e con basso contenuto di grassi.
A questo punto, la Ben Shaul fu in grado di stabilire un filo logico tra le sue scoperte anche più sorprendenti, e di spiegare, per esempio, che la giraffa-madre produce un latte con alto contenuto di grassi e di proteine per i primi dieci giorni di vita del piccolo, e poi passa a produrre una soluzione a contenuto di grassi inferiore. Durante i suoi primi giorni, il giraffino rimane in un posto appartato anche per 12-15 ore alla volta, mentre la madre cerca cibo nei dintorni. Ma, trascorsi questi dieci giorni, il piccolo è in grado di seguire la madre e di prendere il latte quando gli pare. Nei decenni successivi alla pubblicazione del suo articolo, i dati sulla composizione del latte presentati da Devorah Ben Shaul sono stati integrati e raffinati aggiungendo campioni provenienti da numerosi altri animali, e da animali considerati in momenti differenti del loro allattamento, ma la sua intuizione di base è rimasta inalterata. E’ servita a spiegare dei comportamenti nell’allattamento dai caratteri ancora più bizzarri di quelli a conoscenza della studiosa israeliana. Si è visto che i canguri, ad esempio, producono dai loro due capezzoli, tipi di latte molto differenti. Un tipo, una varietà a basso contenuto di grassi, è destinato al neonato, quell’essere quasi allo stato embrionale che risiede permanentemente nel marsupio per molti mesi.
Il secondo tipo, di qualità molto grassa, viene prodotto per il piccolo che è cresciuto abbastanza per lasciare la tasca della madre, ma che continua a succhiare il latte per altri 5-8 mesi, mettendo dentro la testa nel marsupio al bisogno. La cosa sorprendente è che la madre canguro è in grado di produrre questi due tipi di latte contemporaneamente. Può nutrire sia un cangurino già emancipato dal marsupio, sia suo fratello embrionale che sta dentro. Il cangurino sarà sempre sicuro di succhiare il latte dal capezzolo giusto, perché all’altro è attaccato il più giovane che per qualche tempo non staccherà la bocca da lì.
Nel suo famoso articolo sul fondamento logico della composizione del latte, la Ben Shaul sosteneva anche che il latte può rispondere a fattori che si aggiungono al normale accudimento del piccolo, fattori relativi alla specie, all’ambiente in cui essa vive e alle sue specifiche reazioni a quell’ambiente. Il latte ricco di grassi prodotto da balene, foche e delfini, fece osservare la studiosa, è il risultato del fatto che questi animali trascorrono gran parte del loro tempo in acque fredde.
Successivamente, si è scoperto che i pipistrelli, mammiferi che per vantaggi nel volo hanno dovuto puntare sulla riduzione di peso, hanno un latte ad alto contenuto di grassi e sostanze secche, ma a basso contenuto d’acqua. Si è visto poi che i primati hanno un latte ricco di carboidrati, perché i carboidrati sono necessari per il rapido sviluppo del cervello che nei piccoli avviene dopo la nascita. Gli animali il cui cervello alla nascita è quasi completamente sviluppato, come le foche, producono un latte che è a basso contenuto di carboidrati.
Le foche forniscono anche un esempio lampante di quanto sia stretto il rapporto tra composizione del latte e ambiente. E’ il caso della piccola Phoca Hispida, che partorisce sui ghiacci perenni del mare Artico e nutre per due mesi il suo piccolo con latte ricco di grassi al 45 %. Per contrasto, la foca con la cresta, Cystophora Cristata, così chiamata per la grossa vescicola nasale dilatabile in cima alla testa del maschio, si riproduce nelle banchine di ghiaccio dell’Oceano Artico.
Poiché il luogo del piccolo è costantemente minacciato dalle tempeste, dalle correnti o da un innalzamento improvviso della temperatura, questo animale ha il più breve periodo di allattamento di tutti i mammiferi, quattro giorni soltanto, ma il latte è il più ricco di qualsiasi altro, avendo un contenuto di grassi superiore al 60 %. Durante i quattro giorni che il piccolo di foca con la cresta passa con la madre, si nutre frequentemente, ogni mezz’ora circa, con un aumento ponderale di oltre sei chili al giorno.
Il latte è una mistura miracolosa, non c’è che dire, accuratamente preparata sia per rispondere ai bisogni fisiologici del piccolo nell’ambiente in cui viene allevato; sia per armonizzarsi con il tipo di accudimento che la madre prevede per il piccolo. Le necessità nutrizionali dei neonati e le caratteristiche del latte delle madri si sono evolute congiuntamente in modo da produrre, per ciascuna specie, la più opportuna soluzione di proteine, vitamine, grassi, minerali e carboidrati. Un piccolo cresce meglio e più forte se usufruisce di quella specifica composizione, mentre, se viene nutrito con il latte di quasi tutte le altre specie, avrà una crescita scorretta, quando non ha conseguenze anche più gravi.
Non molto tempo dopo che la Ben Shaul ebbe pubblicato le sue scoperte, i ricercatori cominciarono a chiedersi cosa potesse eventualmente rivelarci la composizione del latte umano, riguardo cioè alle circostanze in cui gli umani si sono sviluppati e alle tipologie di allattamento assunte nel corso dell’evoluzione.
Nicholas Blurton Jones, etologo inglese, è stato uno dei primi a porsi questo problema, e l’ha affrontato semplificando le categorie stabilite dalla Ben Shaul. Ha diviso le madri terrestri in due tipi fondamentali: nutrici continue, ovvero madri che portano con sé il piccolo o sono seguite da lui, restando quindi in costante contatto con il piccolo; e nutrici distanziate, ovvero madri che nascondono la loro prole o la tengono nel nido. Questi due grandi raggruppamenti, come ha fatto notare Blurton Jones, si distinguono per alcuni precisi aspetti.
Le nutrici distanziate, come risulta implicito dal nome assegnato loro, alimentano i piccoli a intervalli più o meno distanziati tra loro, e il loro latte ha un alto contenuto in termini sia di proteine che di grassi; inoltre i loro piccoli succhiano il latte velocemente. Invece le nutrici continue, le trasportatrici come le madri dei primati, di marsupiali e di certe specie di pipistrelli, al pari anche delle specie seguaci, quali pecore e capre, allattano i loro piccoli più o meno continuamente, il loro latte è a basso contenuto di grassi e proteine; i loro piccoli succhiano lentamente.
E, in questo quadro, dove si collocano gli umani ? Con un contenuto di grassi del 4,2 % e un contenuto di proteine dello 0.9 %, il nostro latte ci colloca chiaramente nella categoria delle nutrici continue. Questo collima piuttosto bene con quanto sappiamo dell’accudimento materno nelle poche restanti società di cacciatori-raccoglitori, come i Kung del deserto del Kalahari, o i Papua della Nuova Guinea, le cui madri portano con sé i loro piccoli (appoggiati su un fianco o sospesi con una imbragatura) e li nutrono piuttosto frequentemente (durante il giorno anche ogni quarto d’ora e durante la notte almeno una volta, finchè non hanno tre anni).
Ciò spiegherebbe alcune idiosincrasie riscontrabili nel comportamento del bambino moderno, quali il fatto che il suo pianto viene acquietato con un movimento ondulatorio dal ritmo di circa 60 cicli al minuto, corrispondenti alla velocità di una donna che cammini lentamente, cercando forse il cibo, e che trasporti il figlio sull’anca.
Oppure il fatto che il bambino d’oggi è rumoroso, in netto contrasto con il silenzio in cui stanno quasi tutti i piccoli di primate. Il piagnisteo lamentoso che noi oggi ci aspettiamo come una caratteristica normale dell’infante, può darsi che non abbia fatto sempre parte del suo modello di comportamento. I bambini che sono in costante contatto di pelle con la madre, di rado diventano così affamati da mettersi a piangere per aver da mangiare. In questo caso, cioè, la madre è in grado di capire i segnali di fame al loro primo apparire –movimenti, gorgoglii, irrequietudine – e quindi porta la seno il piccolo prima che lui arrivi al punto di piangere.
Un esito, poi, della trasformazione del bambino da poppante che può assumere il latte al bisogno a poppante distanziato, potrebbe essere il disturbo colitico. Se si prendono alcune scimmie Rhesus e le si nutrono manualmente con poppate previste ogni due ore, esse vomitano ed eruttano frequentemente, cosa che non succederebbe alle scimmie Rhesus allattate dalle madri senza tempi stabiliti. Ha osservato Blurton Jones: “forse il fatto che i bambini vomitano o rigurgitano frequentemente è il risultato della nostra insistenza a che imparino presto ad assumere il cibo con cadenze ogni quattro ore invece che secondo un intervallo fra il quarto d’ora e le due ore, come sarebbe suggerito dai dati comparativi sulla composizione del latte”.
Probabilmente, Blurton Jones ha ragione, ed è facile peraltro vedere come abbia potuto verificarsi tale cambiamento, e come le donne, anche quelle che amavano con tutto il cuore il loro figlio, abbiano colto volentieri l’occasione di mettere giù il bambino per un po’ in un posto sicuro – in una casa, in un letto, lasciandolo accudire magari dai fratelli più grandi – mentre loro svolgevano altri compiti senza impedimenti. E si capisce anche molto bene come, da ciò, la tendenza sia stata quella di estendere gli intervalli tra un allattamento e l’altro, non fino al punto, ovviamente, che la salute e la crescita del bambino avessero a soffrirne, o tanto da ridurre la produzione di latte, ma fin dove ciò si conciliava sia con il progresso di crescita del bambino, sia con la conquista di una maggiore libertà di movimento della madre. Questa cosa, le madri di babbuino l’avevano certamente capita.
Essa è nella natura di ogni femmina che allatta, non appena vede che bisogna destreggiarsi fra i bisogni propri e quelli del piccolo. E si tratta della stessa azione equilibratrice che ha condotto alla formazione degli asili nido, all’affidamento vicario e comunitario di molte specie animali.
Può darsi che le madri umane, all’inizio, siano state nutrici continue, e poi, col tempo, e sempre più nelle società occidentali, siano diventate nutrici distanziate sotto tutti gli aspetti, eccetto quello della composizione del latte. Il fatto che le componenti del latte non siano mutate col mutare del comportamento materno non deve sorprenderci, poiché la civilizzazione, come ha osservato un biologo, è fenomeno troppo recente perché abbia potuto incidere in modo apprezzabile sul sistema genetico dell’uomo. Gli umani hanno trascorso circa il 98 % della loro esistenza a condurre la vita nomade dei cacciatori-raccoglitori per cui i loro geni sono ancora in gran parte quelli dei cacciatori-raccoglitori.
Nessuno sa esattamente quando sia avvenuto il passaggio dalla nutrizione continua a quella distanziata, ma è probabile che essa abbia seguito di pari passo la formazione degli insediamenti agricoli stanziali e delle abitazioni permanenti. Né si conoscono tutti gli effetti che tale cambiamento può aver avuto. Ciò che possiamo dedurre è che vi sia stato un influsso importante sul distanziamento nelle nascite e sulla crescita della popolazione, poiché il frequente allattamento al seno pare conduca a una inibizione della ovulazione per la durata dell’allattamento, e quindi a un contenimento delle occasioni procreative. (Il distanziamento delle nascite e la crescita della popolazione vennero anche direttamente influenzate dalla costituzione degli insediamenti permanenti, poiché le donne, non dovendo più portarsi dietro i bambini fino ai quattro anni circa d’età mentre andavano alla ricerca di cibo, non avevano più bisogno a questo punto di limitare le gravidanze.).
Resta tuttavia materia di discussione se tale passaggio, da uno stretto e costante contatto con la madre a periodi di ore trascorse da solo su un’amaca o in una culla, abbia influito sullo sviluppo e sulla psiche dell’uomo. Può darsi che abbia comportato soltanto le coliche nel bambino. Ma chissà, potrebbe anche essere all’origine del senso d’angoscia dell’uomo moderno. La prossima volta che sentiamo un bambino che piange, pensiamo un momento.
Tratto dal libro “A Natural History of Parenting” titolo italiano “Tutti i genitori del mondo”
ed. Baldini e Castoldi. 1998.
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